Viva il modello Boston
Roma. “Non posso impegnarmi mettendo a rischio i contribuenti. Se oggi per andare avanti è obbligatorio impegnarsi a firmare una garanzia, allora Boston non concorrerà più a ospitare le Olimpiadi del 2024”. Con queste parole Marty Walsh, sindaco della capitale dello stato americano del Massachusetts, ha rinunciato meno di 48 ore fa alla corsa per ospitare i Giochi olimpici. Era dai tempi della rivolta democratica e anti fiscale del Tea Party, correva l’anno 1773, che l’Oceano Atlantico che separa l’America dal nostro continente non appariva così largo. Ieri infatti il sindaco di Roma, Ignazio Marino, assicurava invece che “entro il 15 settembre candideremo ufficialmente Roma alle Olimpiadi del 2024”. Boston si ritira, Roma avanza, perché non s’interrompe un sogno olimpico. E non possono nulla i rimpasti politici dell’ultimora dopo le dimissioni di massa degli assessori della giunta Marino, né i reportage scandalistici dei giornaloni internazionali sul degrado di Roma, né il chiacchiericcio dei social network che esorta il romano qualunque a pulire da sé il marciapiede (con buona pace delle imposte versate affinché a pulirli sia chi di dovere).
L’Olimpiade s’ha da fare, e lo stato di prostrazione in cui versa il cittadino contribuente è soltanto una “variabile dipendente” della gestione della città, figurarsi dunque in quale considerazione possa essere tenuto il “rischio per i contribuenti” evocato dal sindaco di Boston. Non è soltanto questione di grandi eventi, altrimenti sarebbe sufficiente una corposa letteratura scientifica a dimostrare come salvo rare eccezioni (vedi i Giochi di Atlanta nel 1996) i grandi eventi deludono le attese di guadagno preventivate dagli organizzatori pubblici. Il metodo-Walsh, in una situazione critica come quella romana, meriterebbe di essere generalizzato. E’ in base al “rischio per i contribuenti” che andrebbe riorganizzata Atac (la municipalizzata del trasporto pubblico che il commissario alla spending review Cottarelli ha indicato come la più indebitata e problematica del paese); è in base allo stesso “rischio” che andrebbe trattato il debito pubblico della capitale d’Italia (già affidato nel 2008 a un’anomala gestione commissariale), e così via tutto il resto. In Italia, invece, e a Roma in particolare, è prevalso l’ideale della “città creativa”, una brutta copia interventista e spendacciona di un’intuizione di Richard Florida che ipotizzò i centri urbani come motori di innovazione. Dice al Foglio l’urbanista Stefano Moroni (Politecnico di Milano): “In questa prospettiva molti hanno pensato che una componente necessaria di una città creativa fossero amministrazioni fantasiose. Ma il punto cruciale è che sono le città e i loro cittadini che devono essere creativi, non le politiche urbane. Detto altrimenti: per avere città creative non è necessario che le politiche siano creative a loro volta. Per un’amministrazione responsabile, a volte un passo indietro è la scelta più creativa da compiere. Come accaduto a Boston in queste ore”. Moroni prosegue nel ragionamento, lo lega allo “strano paradosso” per cui le amministrazioni locali italiane piangono da decenni mancanza di risorse e vincoli di bilancio che nemmeno la Grecia sotto la Troika, salvo poi trovarsi sovente con i conti in rosso e i contribuenti maltrattati.
La corsa al “grande evento”, costi quel che costi, è soltanto un indicatore spia: così non è un caso che Riccardo Magi, consigliere dei Radicali, sia stato l’unico della maggioranza ad aver votato in Campidoglio contro “Roma 2024” e allo stesso tempo uno dei sostenitori più cocciuti di razionalizzazioni e privatizzazioni per uscire dalla perenne emergenza finanziaria. Emergenza non solo contabile, sia chiaro. Vorrà dire qualcosa se oggi si torna a parlare del “fallimento” di Atac, come accaduto già due anni fa quando assessore era il tecnico Daniela Morgante (la prima dimissionata da Marino). Rispetto a due anni fa, gli autisti di Atac sono sempre 6.000, gli amministrativi sempre 7.000, e invece di rovesciare questo squilibrio macroscopico si è preferito risparmiare su corse e carburante degli autobus. Ennesima dimostrazione del fatto che l’utente-contribuente è soltanto una variabile dipendente. Il fine ultimo della gestione di Atac (e non solo) resta il mantenimento di Atac stessa (e non solo). E pazienza se tra addizionale comunale Irpef, Imu, Tari e Tasi, un cittadino romano contribuisce ai servizi locali per 1.040 euro ogni anno, mentre l’italiano medio per 440 euro, scrive il Centro Europa Ricerche. I Tea Party sono lontanissimi, e anche Mr. Walsh.