Perché ridurre le tasse significa ridurre i "compiti" dello stato
Roma. Ridurre le tasse è essenziale per poter sperare di tornare a crescere e, se il Presidente del Consiglio ha deciso di farlo, si tratta senz’altro di una buona notizia. Naturalmente è lecito dubitare che ci riesca, ma è sicuramente più utile proporre idee affinché alle intenzioni seguano i fatti. Natale D’Amico in un articolo sul Foglio [leggi qui] sottolineava come una riduzione delle tasse sia possibile solo a condizione di una riduzione delle spese che ridimensioni i confini dell’intervento pubblico. In effetti il buon senso suggerisce che nel nostro paese la via del debito non sia più percorribile e che la strada auspicabile sia invece quella di un alleggerimento fiscale attraverso una spending review che non sia tanto ricerca di efficienza, quanto piuttosto ripensamento delle funzioni.
Di spending review si è parlato e scritto già tantissimo, generalmente in termini di riduzione degli sprechi. La storia è nota: studi, approfondimenti, piani di risparmio con le cifre più differenti che di volta in volta hanno prodotto magri risultati. L’assunto di base è che la spesa pubblica sia più o meno inefficiente e per questo vada impostato un intervento che tenti di aumentare la qualità della stessa, attaccando le inefficienze. Nessuno dubita della bontà di questo assunto. Ma ai fini di una consistente riduzione della spesa parrebbe un po’ debole, come dimostrano gli scarsi risultati ottenuti fino a Cottarelli. Sarebbe forse più efficace riconoscere la necessità di restringere il perimetro dell’intervento pubblico, ossia l’opportunità che lo stato non si occupi più di alcune questioni. Ragionare quindi in termini di funzioni piuttosto che di qualità della spesa, anche per evitare il rischio che dietro la ricerca dell’efficienza si nasconda semplicemente la protezione di questo o quell’interesse.
Per esempio, rinunciare a presidiare il settore dei trasporti significherebbe impegnarsi a privatizzare Ferrovie dello stato da un lato, ed eliminare i sussidi a trasporto locale, autotrasporti, porti e ferrovie stesse dall’altro.
La tabella che segue mostra che cosa accadrebbe se il governo rinunciasse a intervenire direttamente nei settori dell’informazione, della cultura e dello spettacolo, dei servizi postali e dei trasporti appunto; settori in cui già in altri paesi gli operatori privati hanno dato prova di saper soddisfare la domanda degli utenti, senza bisogno di alcun aiuto. Privatizzare i principali operatori di questi settori, quindi Ferrovie, Rai e Poste, comporterebbe maggiori entrate una tantum pari a 51 miliardi, utili a finanziare immediatamente uno shock fiscale. A regime, eliminare i sussidi alle imprese di questi settori, che ad altro non servono se non a impedire un’efficiente allocazione delle risorse, risulterebbe in quasi 8 miliardi di minori uscite. Parallelamente alla riduzione delle tasse resa possibile dal restringimento del perimetro di intervento, assisteremmo probabilmente anche a un miglioramento nella qualità di questi servizi.
[**Video_box_2**]Difendere l’idea secondo cui non serve che lo stato si occupi direttamente di queste materie non vuol dire preparare il terreno al caos. Lo stato avrebbe comunque il compito di fornire una cornice di regole entro cui dovrebbero agire gli operatori privati. Affermare che non serve che lo stato svolga certe funzioni significherebbe però prendere una posizione politica netta e avrebbe il vantaggio di semplificare le procedure per chi deve attuare i tagli di spesa, oltre che chiarire gli obiettivi agli occhi dell’opinione pubblica.
L’approccio potrebbe essere il medesimo anche in materie più delicate come la sanità. Aprire alla competizione nell’erogazione di alcuni servizi per esempio, quindi rinunciare ad avere l’esclusiva su certe funzioni, come dimostra (checché se ne dica) il caso della Lombardia, consentirebbe di risparmiare risorse preziose in ottica di abbattimento della pressione fiscale. Se il presidente del Consiglio Matteo Renzi è sicuro di voler riformare il fisco e vuole apparire credibile, dovrebbe essere netto nel dire che cosa lo stato rinuncerà a fare negli anni a venire, o almeno cosa rinuncerà a fare in via esclusiva.
Paolo Belardinelli è fellow dell'Istituto Bruno Leoni
tra debito e crescita