Un fisco per l'estate
Avanza una nuova ondata di piagnonismo meridionalista scatenata dai rapporti Svimez e Censis – il Mezzogiorno come la Grecia – e Matteo Renzi lancia un messaggio contraddittorio. Da una parte, il premier dice “basta piangersi addosso” invitando i sindaci (non solo del sud) a “fare di più” anziché bussare per chiedere quattrini pubblici. Dall’altra, come segretario del Pd, convoca una direzione di partito dedicata al meridione. Non vorremmo vederci riproposti orrori tipo piano Marshall, ministero per il sud, o addirittura la resurrezione di una simil-Cassa del mezzogiorno: dopo che l’originale venne messa in liquidazione nel 1984, riesumata due anni dopo sotto specie di Agenzia di promozione e sviluppo (Agensud), riliquidata nel ’92. In 42 anni d’attività, ai valori storici, fu elargito l’equivalente di 140 miliardi di euro di fondi pubblici in gran parte nel modo poi definito “a pioggia”. Alla larga da queste trappole, per Renzi e per tutti noi.
C’è poi un meridionalismo fiscale invocato da governatori e sindaci, gli Emiliano della Puglia, i De Magistris di Napoli, i Crocetta della Sicilia. Caudilli che spesso per far dimenticare i loro fallimenti amministrativi, magari appellandosi al popolo arancione, a Sel, al boldrinismo, all’allarme democratico (“ormai dal sud vanno via anche le mafie”) rilanciato lunedì da Roberto Saviano dopo apposita lettera aperta, sono pronti a far scattare nientemeno che la rivolta fiscale, a pretendere denari e investimenti pubblici secondo la logica del tassa e spendi, accusando il premier di aver “cancellato il sud dall’agenda”, e altre banalità da talk-show. Strepita Luigi De Magistris, sindaco di Napoli in cerca di conferma l’anno prossimo: “Le tasse dei napoletani restino qui!”, urge “una nuova resistenza”. E allora vediamo i dati.
[**Video_box_2**]Tra il 2011 e il 2014, ha reso noto la Corte dei Conti, il sud ha registrato un incremento delle imposte e addizionali locali del 12,5 per cento, rispetto a una media nazionale di aumenti del 22,6. I casi sono due: o nei comuni e nelle regioni meridionali non c’è bisogno di coperture – ma allora come si spiegano i deficit sanitari, i servizi municipali scadenti, e i fondi chiesti allo stato? – oppure gli amministratori vogliono evitare lo scomodo lavoro di esattori. Più bizzarra è la situazione nelle isole. Sicilia e Sardegna registrano aumenti record tra addizionali Irpef, Irap, Imu, Tasi, Tari: più 93,6 per cento. Ma se guardiamo ai valori assoluti riescono a incassare il 9 per cento della media nazionale, con il 12 per cento della popolazione. Non è poco: si tratta di un terzo in meno. Una riprova? Secondo i dati Istat, del Tesoro e dell’Agenzia delle entrate relativi al 2013 confrontando le entrate fiscali complessive con le spese pubbliche esclusi gli interessi, regione per regione, si ottiene per il nord un saldo primario attivo pari al 17 per cento del suo pil, per il centro un attivo del 2,4 per cento del pil, per il sud un passivo del 17 per cento: speculare all’attivo del nord. E, essendo il prodotto lordo molto più alto al nord, la divergenza tra i valori assoluti è ancora più clamorosa. Dunque di quali tragedie in stile Saviano stiamo parlando?