L'uomo nero di Putin
Milano. Giù, ancora giù, sempre più giù. Rotola il barile di petrolio, ormai vicino ai prezzi toccati nel 2009, al culmine della crisi di Lehman Brothers. Ma c’è una differenza: allora il tracollo coincideva con una crisi drammatica delle economie occidentali, in parte compensata dalla Cina, nuovo motore dell’economia. Oggi, al contrario, i consumi a ovest tendono al rialzo, mentre il motore di Pechino è in frenata, con grave danno per i produttori di petrolio, Russia in testa.
Già, ancora una volta Mosca rischia di essere la grande perdente della battaglia del greggio. E’ il vero timore del presidente Vladimir Putin, consapevole che fu il calo del greggio – che ancora oggi rappresenta il 68 per cento dell’export russo – a provocare il collasso del comunismo così come la fine di Boris Eltsin. Per carità, ci vuol altro a piegare la volontà del presidente che ieri ha convocato il presidente della Banca centrale, Elvira Nabiullina, per manifestarle il suo sostegno nella battaglia a difesa del rublo, in calo nei confronti della valuta americana del 35 per cento da maggio, insidiato dalla mole dei debiti (35 miliardi di dollari) da restituire di qui a dicembre. E poi, c’è pure qualche buona notizia o almeno così si direbbe a prima vista: i profitti del colosso pubblico Gazprom sono schizzati alle stelle, un balzo del 71 per cento. In rubli, però. Se si prescinde dalla svalutazione della moneta, i conti cambiano: il gigante petrolifero e del gas ha venduto il 16 per cento in meno in Europa. E le cose promettono di peggiorare: mai, dalla fine dell’Unione Sovietica, la società prediletta dal presidente ha fatturato di meno. Ma, nonostante questo, dovrà versare lo stesso dividendo nelle casse esauste del Cremlino.
[**Video_box_2**]Insomma, ancora una volta è il petrolio il tallone d’Achille della Russia. O, come sospetta zar Vladimir, l’arma letale di Washington, la vera responsabile del crollo del petrolio. Tesi all’apparenza bizzarra perché ormai gli Stati Uniti, grazie al boom del tight oil, noto ai più col nome di shale oil, sono la potenza petrolifera per eccellenza, con un imponente apparato industriale e finanziario legato alle sorti dell’oro nero. Ma i sospetti russi hanno comunque qualche fondamento. Non solo perché la macchina del capitalismo americano sa adattarsi con grande flessibilità agli umori del mercato. Certo, il calo del greggio sta provocando il taglio degli investimenti delle Big oil per centinaia di miliardi. Ma grazie ai progressi della tecnologia, nel giro di pochi mesi il costo delle perforazioni shale si è abbassato da 65 a poco più di 30 dollari. E il colosso delle infrastrutture per l’industria degli idrocarburi Halliburton, grazie a un finanziamento di 500 miliardi di dollari dal fondo BlackRock, ha inaugurato la stagione dei pagamenti dilazionati per i produttori. E per chi non ce la fa c’è sempre un Warren Buffett in soccorso. Berkshire Hathaway ha investito 37,2 miliardi di dollari per acquistare Precision Castparts, gigante industriale indebolito dal calo delle commesse di turbine e trivelle. Ma la causa principale della caduta del greggio sta nella finanza. Il boom del fracking è il frutto di investimenti giganteschi, resi possibili dal basso costo del denaro e sostenuti dall’alto livello dei prezzi del petrolio, gonfiati fino al 2014 dai derivati emessi dalle grandi banche d’affari americane.
Insomma, c’è la “mano visibile” di Wall Street dietro lo sboom dei prezzi del greggio, così profondo da resistere al dumping dell’Arabia Saudita, che non è riuscito a piegare la resistenza dei petrolieri texani e rischia di non riuscire a sbarrare la strada a Teheran, rimessa in gioco proprio da Washington, ormai emancipata dal greggio di Riad. Una scommessa vincente purché, fa notare lo storico Dominic Lieven di Cambridge, questo non faccia precipitare la situazione russa. “Mosca – scrive – non è mai stata tanto vulnerabile da 300 anni”.