L'economia sogna più macchine elettriche

Luciano Capone
La robotica è poco diffusa sia per farci lavorare meglio (e meno) sia per avere paura degli androidi

Milano. “Mi porterei un martello”. Si apre con la risposta del campione di scacchi Jan Hein Donner, alla domanda su quale strategia avrebbe usato in una partita contro un computer, l’ultimo libro di Tyler Cowen (“La media non conta più”, Egea), uno degli economisti e blogger più seguiti. L’angoscia dello scacchista di fronte all’innovazione è la stessa di fronte a cui si trovano milioni di lavoratori che rischiano di essere fatti fuori dall’innovazione tecnologica, sostituiti da macchine e robot. L’opzione Donner, che ovviamente Cowen non prende in considerazione per risolvere le sfide dell’innovazione e dell’ipermeritocrazia nel mondo del lavoro, è la stessa utilizzata all’inizio della rivoluzione industriale da Ned Ludd contro i telai meccanici e non è stata di grande aiuto alle masse dei lavoratori, ma negli ultimi tempi le martellate stanno tornando di moda. Non solo a livello istintivo da parte dei lavoratori spiazzati o espulsi dall’innovazione (basti pensare ai tassisti contro Uber), ma anche nel ceto intellettuale: i cantori della decrescita felice propongono una “moratoria tecnologica” e anche Papa Francesco nella sua ultima enciclica si scaglia contro “il progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine”.

 

Molte altre proposte politiche si basano sulle idee della “fine del lavoro” rese popolari da Jeremy Rifkin ma già enunciate nel 1930 da John Maynard Keynes che per ovviare alla “disoccupazione tecnologica” proponeva “tre ore di lavoro al giorno, più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in noi”. Il futuro distopico di un mondo in cui i robot sostituiscono gli uomini è diventato una fobia reale, come ai tempi di Sismondi quando si temeva “che un giorno il re, girando una manovella, faccia produrre dai suoi automi tutto il lavoro dell’Inghilterra”.

 

[**Video_box_2**]Tutti, a destra e sinistra, temono che in futuro siano le macchine a “rubare posti di lavoro”, ma è probabilmente una preoccupazione doppiamente sbagliata: primo perché non è mai accaduto finora che l’innovazione abbia creato disoccupazione e miseria di massa e poi perché attualmente di progresso tecnologico non se ne vede molto. “Il vero pericolo è esattamente l’opposto – ha scritto su Vox un giornalista di sinistra come Matthew Yglesias –, che la produttività dei lavoratori americani non cresca a un tasso più rapido”, ovvero che non arrivino i robot e l’innovazione. E la stagnazione della produttività non riguarda solo gli Stati Uniti, dove cresce a tassi molto più bassi rispetto al Dopoguerra, ma tante economie molto diverse tra loro: in depressione come Grecia e Italia, emergenti come il Messico e anche in crescita sostenuta come il Regno Unito, dove la crescita della produttività è piatta. Quello della produttività, essenziale per la crescita dei salari, sarebbe un tema più importante della disuguaglianza, ma se ne parla molto meno. Media, opinionisti ed economisti hanno speso tante energie a ipotizzare i pericoli per i lavoratori dell’avvento dei robot ma non hanno valutato i costi del loro mancato arrivo, o ritardo.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali