Zitti tutti, parla la yang ma
Operazione trasparenza della Banca cinese per calmare i “gufi” valutari
Milano. “La nostra intenzione è di difendere la stabilità del cambio. Non è vero, come sento dire in giro, che noi vogliamo svalutare del dieci per cento o più. Sono illazioni prive di fondamento”. Parola di Yi Gang, vicegovernatore della Banca centrale di Pechino, che giovedì, terzo giorno di svalutazione dello yuan, ha affrontato i giornalisti occidentali prima che i mercati proseguissero la corsa al ribasso. “Non vi stupisca la nostra politica – ha aggiunto il banchiere che vanta un Ph.d in Illinois e una cattedra alla Indiana University – interverremo per tenere sotto controllo la volatilità. E’ il sistema più adeguato per un paese come la Cina”. Niente di clamoroso. Salvo il fatto che, per la prima volta, la Banca centrale cinese ha affrontato l’esame dell’opinione pubblica dopo una mossa clamorosa come la svalutazione, che ha sollevato l’allarme dei nostalgici del buon tempo antico, da Donald Trump al senatore Charles Schumer, che sulla minaccia dello yuan debole ha costruito una bella fetta della sua carriera. La manovra per indebolire lo yuan, a detta loro e dei nostalgici della cortina di bambù, altro non è che un atto di guerra, ovvero l’applicazione del totalitarismo sia alle Borse cinesi (cui non è stato permesso di scendere) sia alla valuta. Stona con questa visione la conferenza stampa di giovedì, in cui la Banca centrale, soprannominata yang ma (la grande mamma) dai cinesi, ha voluto spiegare le sue mosse, riscuotendo un immediato successo sui mercati, che le hanno dato credito.
E’ evidente che la mossa non si spiega solo con la volontà di accelerare il processo di liberalizzazione della moneta. Ma Pechino ha buoni argomenti per giustificare l’intervento sul tasso di cambio dopo mesi, anzi anni, spesi a scoraggiare l’uscita dei capitali e a reflazionare l’economia. Dal novembre 2014 a oggi la Banca centrale ha effettuato 15 mosse espansive, senza per questo frenare la discesa di import ed export o dare ossigeno al pil che viaggia, secondo le statistiche, al ritmo del 7 per cento ma minaccia brutte sorprese. Una cosa che la Cina non può permettersi, visti i problemi del paese che potrebbe esplodere in caso di recessione: imprese fortemente indebitate (il 155 per cento del prodotto interno lordo), l’immobiliare a rischio bolla. Instabilità che potrebbe generare “un impatto negativo superiore al previsto” anche a detta del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, stando ai verbali della riunione del 15-16 luglio scorso pubblicati giovedì. Per molto meno il Giappone ha avviato, nel 2012, una robusta pioggia di liquidità che ha provocato un calo del 35 per cento dello yen. Così l’Australia, il principale fornitore di materie prime di Pechino, che quest’anno ha svalutato del 10 per cento rispetto al dollaro, contribuendo così alla caduta dei prezzi in Cina. Eppure, nessuno a Washington ha accusato Tokyo o Sidney di voler rubare il lavoro agli americani o agli europei. “Il vero problema – nota William Pesek di Bloomberg – non sta nella svalutazione dello yuan. Occorre semmai capire come i vertici del paese sfrutteranno il tempo guadagnato con la svalutazione”.
[**Video_box_2**]Senza dimenticare che il terreno è stretto, perché lo yuan debole comporta rischi. Sul fronte interno, il pericolo è che s’inneschi una catena di default di grandi e piccole aziende che si sono molto indebitate in dollari. Non meno grave l’effetto sulle economie del far east, connesse ai cicli produttivi cinesi: un solo punto di svalutazione dello yuan, secondo Ubs, comporta un aumento dei tassi di 12 punti base in Malaysia e Vietnam, di 8 in Corea, di 4 in India. Occorrono, a Pechino come a Bruxelles o a Roma, riforme incisive in tempi rapidi. La svalutazione di questi giorni non è solo una mossa di guerra monetaria ma si può leggere anche all’interno della difficile battaglia per rinnovare l’economia cinese e inserirla a pieno titolo negli equilibri della finanza globale. E in questa chiave la missione trasparenza di Yi Gang è stata un successo.