Xi Jinping vuole un posto nel club
Milano. Il secondo siluro della guerra valutaria è partito alle 9 e un quarto di mattina, ora di Pechino, quando per il secondo giorno di fila i dirigenti della People’s Bank of China hanno comunicato una nuova parità, al ribasso, per il renmimbi: 6,3306, ovvero l’1,6 per cento in meno nei confronti del dollaro rispetto alla vigilia, già segnata dal calo più robusto dal 2005, da quando cioè è in vigore il nuovo sistema di fixing della moneta cinese. Ogni mattina, infatti, la Banca centrale fissa una parità rispetto ad un paniere di monete (dominato dal dollaro, ovviamente) cui, a partire dalle nove trenta, si dovranno adeguare gli operatori, cui è consentito proporre acquisti o vendite con uno scarto massimo del 2 per cento, sia all’insù sia al ribasso. Fin qui la regola è stata rispettata ma con una grande novità: d’ora in poi, spiegano le autorità cinesi, “le forze di mercato avranno un ruolo più rilevante per determinare il valore del renmimbi”. Ovvero la Banca centrale esaminerà l’andamento della domanda e dell’offerta prima di proporre la base del fixing. Ieri, per esempio, Pechino ha preso atto che lo yuan aveva registrato un calo del 2,8 per cento negli scambi a Hong Kong contro il 2 per cento scarso dell’andamento delle operazioni domestiche. Perciò in mattinata è stato proposto un nuovo valore al ribasso e non è difficile prevedere che, nel prossimo futuro, la tendenza al ribasso proseguirà. Con effetti rilevanti, vuoi sul piano degli equilibri politici che dell’economia globale.
Da ieri, infatti, gli analisti si dividono tra gli ottimisti, che sottolineano la maggiore apertura alle regole del mercato, e i pessimisti che mettono l’accento sulle difficoltà dell’economia che stanno alle spalle di una mossa drastica, e che rischia di innescare una guerra valutaria. In realtà entrambi i partiti hanno buoni argomenti. La congiuntura cinese è senz’altro in una condizione delicata: ieri i dati sulla produzione industriale (più 6 per cento, ma in netta frenata) hanno confermato le difficoltà già emerse con la frenata dell’import/export (meno 8 per cento abbondante) e con il primo calo di vendite d’auto, il primo da cinque anni a questa parte. Una spinta all’export grazie a una svalutazione competitiva, insomma, sarebbe auspicabile anche perché la Cina che finora ha difeso un legame, seppur soft, con il dollaro ha rivalutato la sua moneta verso le economie asiatiche o dei paesi emergenti. Ma l’accelerazione della riforma dei cambi ha senz’altro anche altre motivazioni. Il presidente Xi Jinping, che tra un mese andrà in visita ufficiale a Washington, attribuisce grande importanza strategica all’ingresso dello yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario, assieme a dollaro, euro e yen. E’ un passaggio strategico decisivo per legittimare gli sforzi di Pechino per acquisire un peso e un prestigio internazionale adeguato alla forza della sua economia. Dalla nascita della Aiib (Asian Ininfrastructure investment bank) agli investimenti nelle Borse europee (con un occhio particolare per Piazza Affari) la dirigenza di Pechino non ha lesinato gli sforzi per dimostrarsi degna di entrare nel club più esclusivo. Ma, dopo segnali incoraggianti da Washington, negli ultimi tempi l’atmosfera si era fatta meno promettente.
[**Video_box_2**]Certo, nessuno discute la solidità di una moneta che ha alle spalle 3.500 miliardi di dollari di riserve valutarie, ma la forza finanziaria non è l’unico requisito richiesto: Pechino, prima di ottenere il visto, deve dimostrate che lo yuan è “freely usable” e non una moneta manipolata a vantaggio della politica cinese. Il ricorso a regole più flessibili nella fissazione dei cambi, insomma, risponde all’esigenza di venire incontro alle richieste del Fmi. Anche perché la decisione sulla composizione dei diritti speciali di prelievo dovrà essere presa di qui a pochi mesi. E, particolare non da poco, le regole prevedono che i diritti speciali possano esser modificati solo ogni cinque anni. Ora o mai più insomma.