No euro? No, grazie
Gregory Mankiw, in un recente saggio pubblicato sul domenicale del New York Times, ha spiegato abilmente la visione convenzionale secondo cui l’euro sarebbe una cattiva idea. Si tratta di una visione in base alla quale anche paesi piccoli come la Grecia (con i suoi 11 milioni di abitanti) avrebbero bisogno di una propria valuta nazionale. Cito un estratto del saggio di Mankiw, economista dell’Università di Harvard: “L’unione monetaria funziona egregiamente negli Stati Uniti. Nessun economista propone infatti che lo stato di New York, del New Jersey e del Connecticut debbano avere ciascuno la propria moneta; anzi, sarebbe decisamente controproducente se seguissero questa strada. Perché dunque gli europei non possono godere dei vantaggi di una moneta comune? Sono due le ragioni. La prima: a differenza dell’Europa, gli Stati Uniti hanno una unione fiscale nella quale le regioni più prospere del paese sussidiano quelle meno prospere. In secondo luogo, negli Stati Uniti esistono minori barriere alla mobilità della forza lavoro rispetto all’Europa. Negli Stati Uniti, quando uno shock negativo colpisce l’economia di una regione, i residenti possono trasferirsi e trovare lavoro altrove. In Europa, le differenze di lingua e cultura rendono questa reazione meno probabile”. Prosegue Mankiw: “Per questo Milton Friedman e Martin Feldstein sostennero che paesi come quelli europei avessero bisogno di uno strumento ad hoc per gestire le recessioni nazionali.
Questo strumento doveva essere una politica monetaria nazionale associata a un tasso di cambio flessibile. Piuttosto che seguire il consiglio di questi economisti, l’Europa ha adottato una moneta comune per la maggior parte del Continente, gettando la politica monetaria nazionale nella pattumiera della storia”. Infatti, secondo Mankiw, “in un’epoca precedente, la Grecia avrebbe potuto svalutare la dracma, rendendo le sue esportazioni più competitive sui mercati mondiali. Una politica monetaria espansiva avrebbe poi attutito alcuni degli effetti più dolorosi di una politica fiscale restrittiva. Friedman e Feldstein avevano ragione: l’euro si è trasformato in una zavorra economica che ha esacerbato le tensioni politiche. Per questa ragione le élite europee che hanno spinto per una unione valutaria hanno qualche responsabilità”.
Io, dall’altro lato, sono invece un grande fan dell’euro, specialmente per paesi come la Grecia e l’Italia. Il contrasto tra questo disprezzo “convenzionale” e gli sforzi enormi – anche se a mio avviso non tutti consigliabili – dei leader europei per salvare la moneta unica offrono la giusta occasione per spiegare perché è possibile rigettare questa visione convenzionale, nonostante l’apparente consenso di economisti noti e diversi fra loro come Mankiw, Friedman, Feldstein e addirittura Paul Krugman.
Per dirla in poche parole: sono anche un grande fan del metro. Non penso che ciascun paese abbia bisogno della propria specifica unità di misura della lunghezza, o che ciascun paese debba ricalibrare e rimpicciolire questa unità di misura ogni volta che i sarti locali fossero in difficoltà e quindi desiderosi di aumentare il prezzo degli abiti che confezionano.
Più estesamente: questa visione convenzionale è profondamente keynesiana, della vecchia scuola. Secondo tale punto di vista, ogni regione – incluse quelle piccole come la Grecia (11 milioni di abitanti) o l’Irlanda (4,6 milioni), più piccole per esempio dell’area metropolitana di Los Angeles (13 milioni di abitanti) – può entrare in sofferenza a causa di shock di domanda, shock che i governi dovrebbero attivamente contrastare attraverso politiche di stimolo fiscale o monetario. Questa mi colpisce come una di quelle tante storielle che le persone ripetono tutto il tempo fino al punto di credervi, ma le cui basi sono raramente esaminate a fondo.
Cosa sono innanzitutto questi shock locali di domanda, nel caso delle economie dell’Eurozona che sono aperte agli scambi con il mondo, e specialmente di quelle più piccole come la Grecia? La “domanda aggregata” è, per l’appunto, aggregata e non regionale o locale. Le fortune cangianti delle industrie locali rientrano più in quella che chiamiamo “offerta”, altro che “domanda”. Per le piccole economie aperte (come lo è Los Angeles), molta parte della “domanda” proviene da altre città e da altri stati, non è locale.
Cos’è poi questa “unione fiscale” che apparentemente sarebbe in grado di fornire stimoli keynesiani anti ciclici e per di più sempre al momento giusto? Negli Stati Uniti esistono contributi federali ai programmi di welfare sociale come le assicurazioni contro la disoccupazione. L’Europa ha una politica agricola comune e svariati altri sussidi. Non abbiamo invece, su nessuna delle due sponde dell’Oceano Atlantico, programmi di stimolo fiscale a livello locale che siano sistematici, seriamente anti ciclici, rapidi, mirati e temporanei. Basti riflettere: quanto è ampia la variazione ciclica “locale” di queste politiche di stimolo a livello di singolo stato, o della spesa dei governi locali o dei trasferimenti dal centro? Non molto.
Il fatto che questi presunti stimoli debbano essere “locali” e “anti ciclici” o “temporanei” è importante. Perché, certo, sia negli Stati Uniti sia in Europa esistono importanti sussidi incrociati a livello macro. Ma la maggior parte degli stessi sono permanenti. Il resto del paese, per esempio, sussidia l’Iowa, anno dopo anno, per il grano con cui si produce l’etanolo. I pagamenti per la sicurezza sociale arrivano anno dopo anno, e così anche i trasferimenti di soldi dagli stati in cui risiedono più lavoratori a quegli stati con più pensionati. Il nord dell’Italia sussidia il sud per omnia saecula saeculorum, ma con scarsi effetti su shock locali e temporanei di domanda. La politica monetaria ha, nel migliore dei casi, effetti di breve termine, perciò l’argomento – nel caso di una unione monetaria – dovrebbe essere quello a favore di un sostegno finanziario “locale” e “anti ciclico”, connesso insomma alla variazione delle sorti dell’economia, non a favore di trasferimenti permanenti.
Inoltre i trasferimenti fiscali a livello federale negli Stati Uniti furono avviati soltanto negli anni Trenta del Ventesimo secolo. Ma la nostra unione monetaria americana nacque nel 1790, e fino a circa 150 anni dopo ancora non avevamo avuto in America trasferimenti fiscali federali che fossero sostanziali.
Il senso per cui questa è in fondo una tesi keynesiana è che Mankiw non sta nemmeno suggerendo una seconda ragione che comunemente si adduce, in maniera sbagliata secondo me, a favore del ritorno a valute nazionali: è il punto di vista secondo il quale un’unione monetaria avrebbe bisogno di meccanismi centrali di salvataggio dei debiti sovrani. Qui, credo, siamo d’accordo. In una unione monetaria, i paesi sono come delle aziende. Se non possono pagare i debiti, falliscono. Una moneta unica non richiede bailout di debiti sovrani o privati. Mankiw e quanti sposano questa visione convenzionale, però, hanno in mente soltanto la necessità di politiche keynesiane anticicliche. Aforismi del tipo “un’unione monetaria ha bisogno di una unione fiscale”, tuttavia, sono pericolosi, perché possono avere tanti significati.
Questa visione convenzionale, dunque, assume che esistano shock di domanda davvero imponenti a livello regionale; che esista un moltiplicatore fiscale keynesiano grande e importante, e che il governo americano davvero sia impegnato in molti trasferimenti fiscali in chiave anti recessiva, trasferimenti maggiori di quelli dell’Europa (con i suoi sussidi all’agricoltura, ecc.), e infine questa visione sembra dare per scontato che gli Stati Uniti del periodo precedente la Seconda guerra mondiale fossero un’unione monetaria troppo grande e gravemente disfunzionale. Io non sono convinto da nessuno di questi assunti.
Si prenda in considerazione la Grecia. “In un’epoca precedente, la Grecia avrebbe potuto svalutare la dracma, rendendo le proprie esportazioni più competitive sui mercati mondiali – scrive Mankiw – Una politica monetaria espansiva avrebbe poi attutito alcuni degli effetti più dolorosi di una politica fiscale restrittiva”. Quindi forse il pil greco sta crollando a causa di una “politica fiscale restrittiva”? Regolamentazione asfissiante, corruzione, mercati chiusi e ora anche istituti di credito aperti soltanto a intermittenza, con annessi pagamenti congelati per settimane, non c’entrano nulla? Politica fiscale restrittiva? La Grecia in realtà sta a tutt’oggi registrando dei disavanzi primari. Dopo aver sperperato trasferimenti ingenti dall’Unione europea, i governi di Atene hanno consumato ricchezza per un valore pari a oltre la metà del loro pil, e adesso il pil scende ancora. Davvero i problemi economici della Grecia sono costituiti da… una mancanza di prestiti e spesa adeguate? E davvero tutto quello di cui Atene ha bisogno è una svalutazione, dopodiché all’improvviso inizierà a esportare delle Porsche verso Stoccarda in cambio di pezzi di carta che valgono praticamente nulla, invertendo il solito flusso che va nella direzione opposta? Allo stesso modo: davvero, se solo potesse svalutare la sua moneta, il sud dell’Italia diverrebbe una nuova Svizzera?
Mankiw poi insiste con la vulgata della mobilità della forza lavoro. Anche su questo punto, però, sono scettico. Secondo tale vulgata, anche negli Stati Uniti ci sarebbe sempre meno mobilità delle persone, specie in uscita da zone temporaneamente depresse per la debolezza della domanda locale. Così come ci sono molti racconti in arrivo dall’Europa sugli idraulici polacchi. Sí, certo, fino a oggi c’è stata un flusso migratorio più consistente tra gli stati americani di quanto non sia stato quello tra i paesi europei. Ma di nuovo, però: migrazioni cicliche, di un’entità tale che una politica monetaria possa esserne un sostituto, appaiono improbabili.
Ancora una volta, la situazione degli Stati Uniti fino al 1933 solleva una sfida intellettuale interessante. Le storie di migrazioni verso ovest che ci insegnano a scuola non furono certo una risposta a degli shock della domanda. E ai tempi in cui le persone viaggiavano a piedi o a cavallo, la grande maggioranza degli americani non si muoveva a più di 30 chilometri da dove era nata. I costi della mobilità della forza lavoro oggi in Europa sono molto inferiori ai costi della mobilità della forza lavoro nell’America del XIX secolo. Eppure noi americani avevamo già una moneta comune.
Inoltre, e forse più significativamente, io sono meno fiducioso dell’influenza stabilizzatrice delle Banche centrali. Banchieri centrali onniscienti possono, in teoria, individuare shock di domanda e svalutare la moneta in maniera precisa per neutralizzare tali shock, allo stesso tempo astenendosi dall’intervenire di fronte a shock di offerta, a pressioni politiche e così via. Gli stessi tecnocrati potrebbero tranquillamente ridefinire l’unità di misura che è il metro di quanto è necessario per consentire ai loro sarti di rispondere agli shock senza bisogno di cambiare i prezzi degli abiti. Ma la tradizione storica delle Banche centrali di molti paesi europei non è così rassicurante. Le ripetute svalutazioni in Grecia e in Italia, seguite da periodi di inflazione, non hanno generato grande ricchezza.
Aderire a una moneta comune è un impegno ad astenersi da una politica monetaria cattiva e allo stesso tempo una rinuncia a una politica monetaria potenzialmente positiva. Per un alcolizzato, è sempre meglio non lasciarsi andare a un bicchiere di vino occasionale. I politici in carica, infatti, raramente ritengono ci sia in essere uno stimolo sufficiente all’economia. Quando la Grecia e l’Italia aderirono all’euro, questi paesi essenzialmente ammisero: d’ora in poi fare default e generare inflazione diventerà estremamente costoso. Furono premiati per questo loro impegno preliminare con tassi di interesse sul debito estremamente contenuti. La Grecia ha sprecato quei soldi e oggi sta affrontando gli alti costi che avevano messo in contro. Ma questo dimostra soltanto quanto fosse vincolante e reale quell’impegno preliminare. A trarre beneficio da una moneta unica sono specialmente i paesi piccoli che intendono aprire le loro economie al resto del mondo ma che hanno alle spalle una storia fatta di svalutazioni e di inflazione.
La microeconomia, la macroeconomia e la politica sono interconnesse. L’argomento a favore di valute separate vuole che queste proteggerebbero l’economia dagli effetti di salari vischiosi, prezzi vischiosi e persone vischiose, dove “vischioso” è il termine con il quale gli economisti definiscono una variabile che oppone resistenza a un cambiamento. Ma nessuna vischiosità è scritta nelle tavole della legge. Una risposta plausibile alla mia domanda a proposito degli Stati Uniti dell’èra precedente il New Deal è che i prezzi e i salari allora non erano vischiosi, qualsiasi cosa ciò voglia dire, prima che entrassimo nell’èra della regolamentazione. Bene, allora occorre dire che abbiamo perso qualcosa di utile, e questo qualcosa sarà rimpiazzato solo in maniera imperfetta dalla svalutazione della moneta. Se è vero che ogni quartiere non può avere la propria valuta, allora il fatto di cambiare settore economico o ubicazione sarà sempre reso difficile da prezzi, salari e persone vischiosi. Ma se salari, prezzi e persone “vischiosi” sono il problema economico centrale, allora dovremmo avere un ampio ventaglio di politiche pronte a disposizione per per renderli più fluidi. Invece negli Stati Uniti facciamo l’opposto, e l’Europa ancora fa pure peggio di noi. Gli stessi programmi di assistenza sociale che Mankiw implicitamente elogia quando parla di stimolo fiscale, questi stessi programmi legano le persone a un certo luogo e quindi minano la flessibilità del mercato del lavoro. La regolamentazione del mercato del lavoro, particolarmente pervasiva in Europa, rende i salari molto vischiosi, e rende difficile la mobilità del lavoro. Ma tutto questo può cambiare.
La tesi più solida a favore di monete distinte potrebbe essere dimostrata da una piccola economia come quella del Cile, che vende principalmente un singolo prodotto – il rame – sottoposto a notevoli fluttuazioni di prezzo, e che per il resto è piuttosto chiusa all’esterno, e che in più ha istituzioni che promuovono la vischiosità dei salari e non intende riformarle. Quando il prezzo del rame cala, anche il valore del prodotto marginale del lavoro cala, quindi i salari reali dovrebbero abbassarsi e il valore di un taglio di capelli per i minatori del rame dovrebbe diminuire. Il Cile potrebbe preferire mantenere i salari nominali stabili e lasciare che il tasso di cambio fluttui, invece che i salari i quali scendendo scoraggiano le importazioni. Ma anche il Cile, di questi tempi, esporta molto più che il solo rame. E dunque essere un paese piccolo e “vischioso” non richiede per forza di cose la propria moneta. L’università di Stanford ha salari estremamente vischiosi (per via delle progressioni di carriera stabilite), e soffre shock di domanda (positivi, negli ultimi tempi), senza godere di stimoli fiscali per compensare questa situazione e con una mobilità del lavoro scarsissima (occorre un anno per assumere un professore). Tuttavia nessuno pensa che l’Università di Stanford debba avere la propria valuta e svalutare periodicamente questa moneta. Perché no? Perché siamo in una economia aperta.
[**Video_box_2**]La visione convenzionale pensa implicitamente a economie chiuse che operano in parallelo ad altre economie chiuse. Ma le economie europee sono anch’esse aperte. Inoltre tutto il punto della costruzione dell’Eurozona è proprio quello di aprirle al resto del mondo ancora di più. Piccole economie aperte, e che vogliono aprirsi di più, insomma, sono le peggiori candidate per una propria valuta nazionale.
Per quanto possa apparire attraente come idea, certo ogni casa, ogni quartiere e ogni città non hanno bisogno della propria specifica moneta per far funzionare la loro economia. Probabilmente saremo tutti d’accordo sul fatto che nemmeno i paesi molto piccoli, come il Lussemburgo, debbano per forza averla. Quindi la domanda è in realtà la seguente: la Grecia e l’Italia non saranno piccoli come il Lussemburgo, ma vogliono o no diventare più aperti, più globali e dunque più “piccoli” rispetto alla moneta unica?
Mankiw sintetizza bene la visione convenzionale sulle unioni monetarie. Si tratta di riconoscere che questa tesi appartiene però alla vecchia scuola keynesiana, sia per come analizza le fluttuazioni, sia per il bisogno costante di gestione della “domanda” che essa prevede, sia infine per il successo che prevede per i gestori di tale “domanda”. C’è motivo per essere in disaccordo su questa teoria e, più propriamente, sui fatti di cui essa sembra non tenere conto. Una moneta unica è in fondo una unica misura di valuta, e funziona come una unica e fidata misura di lunghezza.
John H. Cochrane è Senior Fellow alla Hoover Institution dell’Università di Stanford - traduzione di Marco Valerio Lo Prete