L'Australia sferza gli ecologisti per tenere aperti teatri e miniere
Roma. Gli spettacoli teatrali, in Australia, sono il vero canarino nella miniera. Quando i cartelloni degli spettacoli artistici si fanno più scarni, vuol dire che il business dell’estrazione di materie prime arranca. E’ quanto emerge da un recente reportage del Financial Times dagli Antipodi: “Una compagnia locale ha appena cancellato la sua performance principale per la stagione, il classico della Grande depressione ‘Uomini e topi’, dopo il crollo delle donazioni private, un crollo causato dalla forte crisi nel settore minerario”, ha scritto il quotidiano finanziario inglese. E quello della Perth Theatre Company non è un caso isolato, considerati i risultati negativi di colossi del comparto come Bhp Billiton, Rio Tinto, Woodside e Chevron, lauti finanziatori delle arti liberali per tutto l’ultimo decennio di boom. Due i fattori, tra loro legati, che frenano queste società: il dimezzamento del prezzo del minerale di ferro e del gas naturale liquefatto, e poi il rallentamento dell’economia cinese che è l’acquirente di ultima istanza di tutto questo ben di Dio racchiuso nel sottosuolo dell’isola-continente. Nel 2013 l’associazione nazionale che rappresenta i 28 principali gruppi artistici teatrali ha registrato il primo segno “meno” – dal 2007 a oggi – di fronte alla voce “finanziamenti privati”: 29,7 milioni di dollari ricevuti, appena il 2 per cento in meno di un anno prima. Ma da allora la china non si è invertita, anzi.
Tuttavia, se i palcoscenici sono come i canarini nella miniera, il governo conservatore guidato da Tony Abbott adesso si preoccupa, e non poco, dei minatori stessi e di tutto l’indotto che vi ruota attorno. Negli ultimi anni di espansione delle estrazioni (di ogni sorta), migliaia di cittadini australiani avevano guardato al settore minerario un po’ come certi giovani freschi di master a Londra o a New York guardano alle rutilanti Borse finanziarie dei propri paesi: la chance di un posto di lavoro dove essere spremuti per qualche anno, in cambio di una ottima remunerazione dovuta pure alle indennità salariali per chi è costretto a vivere per lunghi periodi lontano dai centri urbani, per poi tornare a spendere i risparmi accumulati nelle città costiere in cui si concentra la stragrande maggioranza della popolazione. Per anni c’era richiesta di tutto: dai guidatori di tir agli avvocati, passando ovviamente per ingegneri e minatori propriamente detti. Ora non è più così. E se nessun governo australiano ovviamente può costringere l’economia cinese a correre di più, almeno può fare di tutto per rendere la vita facile e conveniente ai gruppi minerari che vogliono insediarsi nel paese. Così per esempio l’ha sempre pensata Tony Abbott, premier conservatore eletto nel settembre 2013, quando interruppe un dominio laburista che durava dal 2007.
[**Video_box_2**]Nel programma di Abbott, con sommo sdegno degli attivisti anti riscaldamento climatico, c’era per esempio l’abolizione della Carbon tax, un balzello sull’inquinamento che invece faceva inorridire le rampanti aziende locali che lavorano per accontentare l’energivora Pechino. Vinte le elezioni, Abbott non perse tempo, non ascoltò organizzazioni non governative e istituzioni internazionali, e nell’estate del 2014 annunciò: “Oggi la tassa che con il vostro voto avete detto di voler eliminare non c’è più”. Cosa fare di più, adesso? L’esecutivo continua ad arrovellarsi. In questi giorni lo stesso Abbott, dopo le proteste di un gruppo minerario indiano che intende iniziare le attività in Australia, ha detto di voler mettere fine “all’infinito sabotaggio legale” da parte dei gruppi ambientalisti. Questi ultimi si muovono in blocco, tra manifestazioni, picchetti e ricorsi in tribunale. La BAEconomics ha stimato che se si riuscissero a ridurre di un anno i ritardi nella progettazione e nell’allestimento di nuove miniere, verrebbero creati 69.000 posti di lavoro in più in pochi anni. Perciò Abbott e il Parlamento si dicono pronti a restringere le possibilità di accesso ai tribunali. Gli ecologisti lamentano la fine della democrazia, ma forse spettatori e attori di teatro ringrazieranno.
tra debito e crescita