Occupazione in su e zero inflazione. Un dilemma (buono) per la Fed
La curva di Phillips è morta? Questo interrogativo emerge negli Stati Uniti in cui l’occupazione cresce di 125-150 mila unità al mese, mentre il tasso di disoccupazione si è stabilizzato sul 5,3 per cento e non c’è un aumento nei salari reali, mentre il tasso di inflazione “core”, depurato cioè dai prezzi agricoli ed energetici, è sotto il 2 per cento e quello effettivo, dato il calo dei prezzi energetici e di alcune materie prime agricole, è più basso. Ciò benché sia in atto da tempo la politica monetaria di Quantitative easing e la sua cessazione venga di continuo spostata in avanti – come confermato anche dalle minute della riunione di luglio, dalle quali emerge un approccio morbido alla decisione di aumentare i tassi – dato che il tasso di crescita del pil si mantiene attorno al 2,3 per cento e non c’è tensione inflazionista. Secondo la teoria sottostante alla curva di Phillips, se la politica monetaria è adeguatamente permissiva, quando la domanda di lavoro aumenta, i salari e i prezzi aumentano. Ci sono due ipotesi. La prima è che l’occupazione aumenta quando aumentano i prezzi e i salari a causa di una espansione monetaria. La seconda è che i prezzi e i salari aumentano in situazione monetaria permissiva in cui c’è un aumento del pil che riduce la disoccupazione.
Dunque, o per una ragione o per l’altra, la curva di Phillips comporta che i salari nominali salgano quando sale l’occupazione e, a causa del ribasso del tasso di interesse dovuto a politiche convenzionali o a fortiori a politiche non convenzionali, aumenta l’offerta di moneta e i prezzi salgono. Adesso invece in America l’occupazione aumenta, c’è l’espansione monetaria, con una moderata crescita del pil dovuta alla crescita del consumo, delle esportazioni e dell’investimento nelle abitazioni, alla spesa pubblica dei governi locali e statali; i salari però non aumentano e non c’è una pressione inflazionistica. E’ dunque morta la curva di Phillips, che piace, in particolare, ai nostalgici di Keynes che ricordano che egli, negli anni 30, quale rimedio per uscire dalla crisi suggeriva una espansione monetaria che generasse inflazione e facesse ripartire l’economia, riducendo la disoccupazione, grazie al deprezzamento dei salari nominali?
Ci sono varie ragioni per cui la curva di Phillips non vale più in America. La prima è che il mondo del lavoro statunitense non è più sindacalizzato. I salari sono flessibili, non rigidi. Non c’è bisogno che i prezzi salgano, per riportare i salari nominali a un livello reale accettabile in una economia aperta. La dimostrazione di ciò è che la disoccupazione è scesa a un livello basso, attorno al 5 per cento, proprio delle economie con salari flessibili. La seconda è che, in un paese con circa 330 milioni di abitanti, con un tasso di crescita della popolazione a causa dell’immigrazione dello 0,9 per cento all’anno, ossia 3 milioni di persone, e un tasso di attività del 60 per cento della popolazione, il milione e mezzo di occupati in più corrisponde all’offerta di nuovi lavoratori. Ciò è compatibile con la crescita del pil e della produttività dell’1 per cento dovuta al progresso informatico.
[**Video_box_2**]In America, inoltre, adesso, non c’è molta capacità produttiva cattiva, perché la crisi l’ha eliminata e il governo non ha fatto salvataggi assistenziali, ma ristrutturazioni con criteri di mercato. L’economia è concorrenziale e non c’è bisogno di inflazione per l’espansione produttiva. E’ vero che il pil americano è parzialmente trainato dall’export, ma l’import è maggiore dell’export e crescente. Il saldo in parte è coperto con l’emissione di dollari, in parte coi proventi degli investimenti esteri e delle royalty. Ciò permette un’espansione senza colli di bottiglia perché quando manca l’offerta interna la domanda viene soddisfatta dall’offerta estera, senza vincolo della bilancia dei pagamenti, quindi senza rincaro dell’import cioè senza inflazione importata. Parliamo degli Stati Uniti, ragazzo, non degli stati dell’Eurozona.