Rischio sboom politico a Pechino
La maggior parte degli osservatori ha analizzato la crisi cinese soprattutto sul versante finanziario, quello sul quale si è espressa concretamente, mentre quello politico è rimasto in ombra, anche per la difficoltà a decrittare i flebili segnali che emergono da un sistema politico ancora largamente inconoscibile. Tuttavia alcune linee di tendenza di fondo possono forse essere identificate se si parte da una considerazione il più possibile oggettiva della politica cinese. In primo luogo bisogna considerare l’obiettivo di fondo, che è quello di acquisire una funzione egemonica, da quando la Cina ha riconquistato la piena indipendenza.
Questo scopo all’inizio fu perseguito con spirito bellicistico, a cominciare dalla nota tesi di Mao sull’inevitabilità di una nuova guerra mondiale. La generazione postmaoista, invece, ha puntato sulla possibilità di conquistare il ruolo imperiale attraverso una espansione economica che in effetti ha dato frutti copiosi, con l’egemonia in Asia e in Africa e una presenza aggressiva sui mercati internazionali. Questa linea, però, regge solo se la crescita e l’espansione continuano a ritmi assai sostenuti. La modernizzazione dell’apparato industriale con l’acquisizione di tecnologie produttive più avanzate (ma ancora non competitive con quelle occidentali) ha prodotto tassi di crescita impressionanti. Rimane però aperta la questione terribile della modernizzazione dell’agricoltura che provocherebbe una colossale sovrabbondanza di mano d’opera difficile da ricollocare. La crescita vigorosa nell’industria, la colonizzazione africana e il regime a partito unico, che, come da noi durante il fascismo, permette la libertà di mercato ma non quella di libera organizzazione sindacale, ha consentito a questo progetto di ottenere risultati importanti, il che non ha però escluso dall’orizzonte politico cinese l’alternativa più strettamente nazionalista e militarista.
L’esempio fascista e quello franchista
Più che interrogarsi sull’effetto della correzione del cambio e dell’esplosione della bolla finanziaria cinese, forse, converrebbe cercare di capire quale sarà l’effetto di questi avvenimenti sugli equilibri di potere all’interno del partito comunista cinese. Per la prima volta dalla riconquista del potere da parte dell’ala pragmatica di potere di Deng Xiao Ping, l’ipotesi di fondo, quella della crescita ininterrotta a ritmi assai sostenuti come strumento per l’acquisizione pacifica di una funzione egemonica, ha subito una seria battuta d’arresto. Se questa tendenza si confermerà comunque, sarà inevitabile una graduale apertura anche sul terreno dei diritti sociali e civili, come quella che si verificò nell’ultimo decennio della dittatura franchista in Spagna, quando si arrivò a un riconoscimento di fatto delle rappresentanze operaie estranee al partito del regime.
[**Video_box_2**]Probabilmente, però, l’ala che punta a raggiungere l’egemonia anche con strumenti militari, che non è mai stata sconfitta e che si richiama alla lezione maoista, cercherà di ostacolare qualsiasi processo di liberalizzazione che esca dal terreno strettamente economico, agitando lo spettro della dissoluzione dell’unità nazionale e sociale, del tipo di quella patita dall’Unione sovietica, proponendo invece, magari sotto forma di una lotta alla corruzione, un giro di vite autoritario all’interno e una politica esplicitamente espansionista all’esterno. Naturalmente possono esistere vie intermedie tra le due che sono state citate in modo grossolano ed esemplificativo. Quello che però appare chiaro è che l’equilibrio precedente si è rotto, che il meccanismo della crescita è inceppato e richiede una correzione, che non può essere che dettata da una scelta politica. Se sia in direzione di una liberalizzazione interna per allargare l’area delle forze interessate a promuovere lo sviluppo e la competizione o, al contrario, in quella di un irrigidimento al servizio del colossale apparato tecnologico-militare che punta a conquistare un ruolo mondiale anche con la minaccia bellica, non è oggi dato sapere.