E' il ciclo finanziario, bellezza!
Il dibattito estivo sull’Italia “fanalino di coda” della crescita europea, aperto dagli ultimi dati sul pil del secondo trimestre, è per certi versi ozioso. Lo era prima e lo è a maggior ragione oggi alla luce dello scoppio della bolla cinese che fa toccare con mano il ruolo preponderante del ciclo finanziario nella vicenda macroeconomica. Ieri la Banca centrale cinese ha iniettato nuova liquidità, ha tagliato dello 0,25 per cento il tasso d’interesse e ha abbassato la riserva obbligatoria imposta alle banche: la Borsa di Shanghai ha comunque chiuso a meno 7,6 per cento, mentre le Borse europee hanno fatto segnare forti rialzi (Milano il 5,9 per cento compensando quasi del tutto le perdite del giorno prima). Tornando all’economia reale, il modesto aumento del pil italiano nel periodo aprile-giugno ha indubbiamente deluso. Anche se a orientare in negativo il barometro degli umori nazionali ha contribuito un certo uso politico delle cifre, con cui sono stati messi in ombra alcuni segnali positivi (il risveglio dei servizi e della domanda interna, il costante miglioramento di Ita-Coin, l’accurato indicatore della Banca d’Italia che misura le tendenze di fondo del pil), fuorviando l’opinione pubblica. I commenti, anche quelli non ispirati da logiche di parte, hanno letto nell’esiguo più 0,2 per cento di aumento o il riflesso di errori di impostazione nella politica economica del governo o le conseguenze della lentezza con cui vengono attuate le “giuste” riforme strutturali in cantiere. L’inclinazione al pessimismo di maniera che caratterizza la stampa economica italiana ha poi fatto il resto.
In realtà questo tipo di analisi è vittima di un’eccessiva focalizzazione sul breve termine e da un’ottica troppo centrata sulle variabili reali dell’economia. Da tempo la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea ammonisce che un approccio di questo tipo può essere “misleading” ai fini di una corretta strutturazione delle politiche vista l’importanza assunta dal ciclo finanziario. E ciò, anche a prescindere dal fatto che in quasi tutti i paesi si sta rafforzando la tendenza a prendere con le molle le statistiche puntuali sul prodotto, perché anche se sono le uniche disponibili, sono pur sempre frutto di stime. In Italia sono stati sollevati dubbi sulla metodologia seguita dall’Istat per il calcolo della produzione industriale, che è una componente base dell’indice della ricchezza. A parte i casi di sospetta manipolazione (vedi Grecia e Cina), negli Stati Uniti la Federal Reserve non si fida delle statistiche elaborate dal Bureau of Economic Analysis e soggette a molte, troppe revisioni. Casi analoghi sono riscontrabili anche in altri paesi. Forse ai mercati finanziari interessano più i dati sulle sofferenze bancarie o l’andamento del saldo Target della Banca d’Italia che le cifre trimestrali del pil.
[**Video_box_2**]Secondo la Bri, a partire dagli anni 90 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la globalizzazione, il ciclo finanziario, all’interno del quale la mutevole percezione dei valori e del rischio conduce all’accumulo di debito privato e pubblico con conseguenti boom e successivi crolli dei mercati, ha preso il sopravvento sul ciclo economico reale. “La macroeconomia senza il ciclo finanziario – dice il capo economista della Bri, Claudio Borio – è come Amleto senza il Principe. Non si possono capire le fluttuazioni del ciclo economico se non si capisce il ciclo finanziario”. Da questo punto di punto di vista l’economia italiana, come quella europea, risente ancora degli effetti della recessione “patrimoniale” innescata dalla crisi finanziaria del 2008. Sono i problemi connessi all’assorbimento dell’eccessivo debito accumulato a guidare i comportamenti degli operatori ed è dunque in questa area che si possono trovare le soluzioni per sbloccare la crescita. Le turbolenze finanziarie di questi giorni erano prevedibili ma non cambiano i termini del problema. Per l’Italia questa prospettiva fornisce indicazioni interessanti. Si potrebbe concludere per esempio che la madre di tutte le riforme strutturali risiede nella risoluzione del problema dei circa 300 miliardi di sofferenze bancarie. Analizzando le politiche di fuoriuscita dalla crisi dei primi anni 90 messe in atto dai paesi scandinavi e dal Giappone, la Bri rileva per esempio che il successo dei primi è dipeso da un mix di svalutazioni e salvataggi delle banche mentre le classiche politiche di “fine tuning” di Tokyo (interventi continui del governo per rispondere alle fluttuazioni del sistema) non hanno avuto esito. E’ forse un caso che in Europa la Spagna e la Germania, paesi che hanno ricapitalizzato i loro istituti, siano anche quelli in cui oggi la crescita è meno asfittica?