I nuovi giacimenti di Sisi impensieriscono l'Opec
Roma. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, l’ha definita una scoperta da brividi e se stime e tempistiche saranno confermate, il mega giacimento di Zohr – una volta a regime – potrebbe veramente rivoluzionare la politica energetica egiziana, rimettendola al centro dello scacchiere mediorientale.
Descalzi lo ha detto chiaramente anche al presidente egiziano Al Sisi: lo scenario cambia per il Cairo. Non c’è solo il gas, ci sono i progetti di espansione dell’output petrolifero nel Golfo di Suez, il piano per costruire nuove raffinerie, nove miliardi di dollari circa, secondo il ministro per il Petrolio Sherif Ismail. L’Egitto può ora ingaggiare da solista una competizione per il mercato che minaccia soprattutto l’Opec. Ieri il cartello che riunisce i principali produttori petroliferi si è detto “pronto al dialogo” con gli altri paesi produttori, “ma giocando alla pari”; nel suo ultimo bollettino fa pure sapere che “proteggerà i propri interessi”.
Il cartello petrolifero ha iniziato infatti a scricchiolare già da fine maggio, quando – durante l’ultimo vertice di Vienna – è passata la linea dei sauditi per il mantenimento dei livelli di produzione del greggio, per affossare i piccoli produttori di shale oil negli Stati Uniti. Una mossa che ha visto solo apparentemente tutti gli altri membri compatti, ma che, al contrario, ha fatto nascere una guerra sotterranea per ribaltare i rapporti di forza nell’organizzazione e che rischia ora di isolare l’Arabia Saudita.
Torniamo indietro. Verso metà maggio, le gerarchie di Riad fanno filtrare, tramite una conversazione riservata con il Financial Times, l’idea che la strategia di mantenere la produzione di petrolio invariata per far crollare i prezzi di Brent e Wti, così da mettere i bastoni tra le ruote ai produttori di shale oil americani, sta effettivamente avendo successo. I sauditi prendono come riferimento i dati (parziali) dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), che, in quel momento, rilevavano un crollo delle trivelle attive del 60 per cento negli Stati Uniti. La mossa è però tutta politica, serve solo per spingere in una direzione ben precisa il meeting dell’Opec dello scorso 30 maggio. A guidare i giochi sono il potente ministro del petrolio saudita, Ali Naimi, e il segretario generale dell’Opec, il libico Abdallah El Badri. Con l’appoggio dei paesi del Golfo, Naimi riesce alla fine a spuntarla: si decide di non applicare alcuna strategia per rialzare i prezzi. La conseguenza principale è però la nascita di un asse di “ribelli” che decidono di spingere per riportare i livelli dei prezzi almeno sugli 80 dollari a barile.
La fronda è principalmente composta da Iran, Iraq, Algeria, Venezuela e Angola. Ognuno di questi paesi ha i suoi buoni motivi per avversare le scelte di Riad e riallineare alla svelta l’Opec verso altre politiche di prezzo. Più di tutto, se è vero che il numero dei pozzi negli Stati Uniti è calato, è altrettanto vero – come dimostrano anche le stime recenti di Baker Huges – che l’outpout americano è continuato a crescere, raggiungendo il picco massimo della storia energetica americana lo scorso giugno, con una produzione di 9,6 milioni di barili al giorno. Ed è così che le convinzioni saudite vacillano, come il difficile equilibrio diplomatico che El Badri sta cercando di mantenere.
Il primo a essersi spazientito è il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, che ancora qualche settimana fa ha chiesto con veemenza la convocazione di un meeting urgente per rivedere la strategia di mercato. A Vienna sembrano non voler proprio sentire. Sempre la stessa richiesta era stata veicolata dal ministro dell’Eenergia algerino, Salah Khebri, come ha riferito il quotidiano Al Watan, ma anche in questo caso il segretario generale dell’Opec ha fatto orecchie da mercante. El Badri ha fatto sapere che nulla è in agenda sino al prossimo dicembre e ha chiesto a tutti di essere pazienti. Con il valore del dinaro (la valuta algerina fortemente dipendente dal prezzo del petrolio locale) in picchiata, ad Algeri però difficilmente possono dormire sonni tranquilli. Non lo possono fare neanche a Caracas, dove ogni giorno che passa si avvicina sempre di più lo spettro del default finanziario.
[**Video_box_2**]L’Opec dà la colpa delle quotazioni ancora pericolosamente basse all’aumento dell’offerta da parte dei paesi esterni al cartello, ma, secondo l’Aie, il surplus dell’offerta a livello globale passa solo da Vienna.
Chi potrebbe veramente sparigliare le carte dentro il cartello, è l’Iran. Nonostante le autorità di Teheran continuino a smentire le voci di un imminente aumento della produzione, il cannone sembra ormai puntato. Come ha ricordato Roknoddin Javadi, il direttore generale della National Iranian Oil Company, con la cancellazione delle principali restrizioni che in questi anni hanno limitato il settore petrolifero, l’output aumenterà di 500 mila barili al giorno. Insieme a questo nuovo impulso l’Iran ha già dato il via a una serie piani di sviluppo dei suoi giacimenti che aggiungeranno al totale altri 1,5 milioni di barili, con una esportazione quotidiana di 2 milioni, sostengono dalla compagnia di stato. Secondo alcuni analisti, non è da escludere che al prossimo vertice Opec la Repubblica Islamica cerchi di assumere un nuovo ruolo guida, con la minaccia di invadere il mercato di altro greggio. Anche i più vicini alleati dei sauditi, tralaltro, cominciano a mostrare serie difficoltà.
Gli Emirati Arabi stanno smantellando la propria politica dei sussidi, agganciando i prezzi del carburante a quelli di mercato, così da eliminare i tassi agevolati sino ad ora elargiti alla popolazione. Se i funzionari del cartello continuano a minimizzare questi segnali, come ha ricordato Jassem Al Saadun, a capo della Kuwait’s Al-Shall Economic, società di consulenza attiva nel settore energetico, “se Iran, Venezuela, Algeria e Libia entrano in conflitto con i paesi produttori del Golfo, questa potrebbe essere l’inizio della fine per l’Opec”.