Perché Marchionne sguazza nel risiko dell'auto mondiale
Milano. “Le ho telefonato più volte. In ufficio, però, non prendono la mia chiamata”. Ma fino a quando la tenacia del centralino riuscirà a difendere la virtù di Mary Barra, ceo di General Motors (Gm), dalle avances di Sergio Marchionne? “Non voglio uscire con lei – protesta il numero uno di Fiat Chrysler – Voglio solo vederla”. Per sommergerla dei numeri e delle proiezioni sulle prospettive di un matrimonio tra le due società: “Le ragioni di un accordo tra noi e Gm sono indiscutibili: fino a 30 miliardi di dollari di utile netto”. “Attenta Mary – commenta Jason Stein, uno dei reporter di Automotive News che hanno raccolto le confessioni di Marchionne nel suo ufficio di Detroit – C’è un drago che ti aspetta dietro l’uscio. E indossa un maglioncino scuro”. Marchionne sta al gioco (“ci sono vari tipi di abbraccio, gentile o più fermo”) ma fino a un certo punto: “Tu puoi respingere un accordo, ma non puoi rifiutarti di discutere”. Insomma, la questione Gm resta aperta.
Anzi, la questione Fiat Chrysler, perché, nonostante annunciato dal manager ai venditori d’auto a Las Vegas una settimana fa, non è affatto detto che il gruppo Torino-Detroit possa fare a meno di una promessa sposa (con dote). “Se mi rivolgessi al mercato – dice tra l’altro nell’intervista-fiume – potrei raccogliere 10, magari 15 miliardi di dollari e abbassare il livello dei debiti. Ma non posso dimenticare che ho un azionista importante, con il 30 per cento. Se andassi loro e proponessi un’operazione del genere mi direbbero ‘Sergio, è magnifico, ma…’”. Niente da fare, insomma. Anche perché Fca, a un mese dalla scissione e successiva quotazione della Ferrari, non è certo un’azienda in disarmo, ma rimane condannata in assenza di un salto di qualità, a un futuro “all’insegna della mediocrità”, come impietosamente sottolinea l’uomo che ha impedito un più che probabile fallimento sia del Lingotto che di Chrysler.
Le ragioni? Dopo l’uscita di Ferrari che presto, distribuite le azioni tra i soci Fca, passerà sotto il controllo diretto di Exor, Fiat Chrysler varrà più o meno la metà di oggi, con due soli jolly da giocare: il controllo di Jeep (che da sola rappresenta il 60 per cento del valore) e le prospettive della nuova Alfa (“Credetemi – giura Marchionne – è una vita che viaggio sulle auto tedesche. Questa è un’altra cosa”) ancora tutte da verificare. Poca roba per affrontare un mondo dove il gioco si sta facendo sempre più duro: auto elettrica, connettività, rispetto delle norme ambientali e dei regolamenti diversi da paese a paese, stanno obbligando anche i gruppi a quattro ruote più solidi a prendere decisioni drastiche, fino a ieri quasi impensabili.
A inizio agosto i tre Big tedeschi si sono alleati per acquistare in condominio, per 2,8 miliardi, le mappe stradali di Here, oggi il cuore dei navigatori Gps, un domani l’anima della connessione on the road. Intanto Daimler apre le porte del capitale ai cinesi di Baic, braccio finanziario di Beijing Automobile. Sul mercato, poi, brilla la stella di una divorziata di lusso: Suzuki, già legata a Volkswagen da una partecipazione del 20 per cento in mano ai tedeschi. Domenica, dopo anni di lite, un arbitrato internazionale ha dato ragione al signor Suzuki: i tedeschi saranno obbligati a cedere la loro quota all’imprenditore nipponico che avrà di nuovo mano libera per scegliere le alleanze future. Magari assieme a Fiat da cui Suzuki compra da anni i motori con grave dispetto dei tedeschi. “Se volessi chiudere un accordo con altre – ruggisce Marchionne ancor prima d’aver notizia del verdetto – potrei riuscirci in poche ore. Ma nessuna operazione presenta tanti vantaggi quanto l’intesa con Gm”. Resta, particolare non da poco, il problema di convincere il partner che non ne vuole sapere. Fca potrebbe giocare la carta di un’offerta sul mercato, resa possibile dall’assenza di un nucleo duro alle spalle di Mary Barra e del resto del board. Ma l’operazione non sembra alla portata delle fragili finanze di Fiat Chrysler, l’unica tra le grandi società dell’auto che ha più debiti che quattrini in cassa. Di qui la necessità di procedere ad ampio raggio, cercando alleati tra i grandi investitori, le banche d’affari e gli analisti.
[**Video_box_2**]“Abbiamo abusato del sindacato”
Senza trascurare il sindacato, alleato prezioso nel 2009 per convincere il presidente democratico degli Stati Uniti, Barack Obama, a giocare la carta italiana. Oggi come allora il fondo pensione delle tute blu di Detroit può essere decisivo, viste le azioni Gm in cassa, anche se i rapporti al momento non sono granché: venerdì il 97 per cento dei lavoratori ha votato la delega per indire uno sciopero. Ma ci vuole altro per fermare Marchionne che lancia segnali di pace a Dennis Williams, il presidente dei metalmeccanici Uaw: “Diciamoci la verità – spiazza gli interlocutori – in questi anni tutti noi abbiamo abusato del sindacato. Per esempio, abbiamo delocalizzato all’estero la produzione dei camion che vendiamo qui. Se tornassimo indietro, potremmo distribuire lavoro e ricchezza perché sui camion oggi stiamo facendo quattrini”. Insomma, pochi soldi ma più occupazione. C’è da chiedersi se Marchionne riuscirà a far breccia nei sentimenti di miss Barra o, quantomeno, dei soci Gm per cui un merger con Chrysler non è certo una novità.
Se ne parlò a lungo nel 2009, prima che spuntasse l’opzione Marchionne per Chrysler. Forse adesso l’operazione si farà, con la dote aggiuntiva di Fiat e, soprattutto, Alfa. Uno scippo all’azienda Italia? I dati dicono l’opposto: grazie alle auto esportate in America nel primo semestre del 2015 l’export tricolore negli Stati Uniti è risalito al decimo posto, come non accadeva dal 2003. Grazie a Marchionne in versione Romeo che, sulle rive del lago Michigan, sta al telefono in attesa di Mary-Giulietta.