Una relazione atomica
Troyes. In un secolo di storia industriale italiana, i progetti calati dall’alto sulla testa di cittadini poco o per nulla consapevoli hanno creato un grande cortocircuito nei rapporti tra il mondo imprenditoriale (e infrastrutturale) e l’opinione pubblica. Nei prossimi anni, in Italia, un nuovo fronte di scontro sarà legato alla chiusura definitiva dell’epoca (molto breve) dell’elettronucleare italiano. Ci saranno polemiche, manifestazioni, ribellioni, battaglie politiche. E per capire cosa succederà nel nostro paese quando il tema si presenterà di fronte all’opinione pubblica – e quando materialmente si comincerà a lavorare al primo al primo deposito di scorie radioattive del paese – può essere utile raccontare quello che è già accaduto in un paese come la Francia che ha già affrontato quello che dovremo affrontare noi. Ci siamo andati e ci siamo fatti un’idea. Ma prima un piccolo passo indietro. Attualmente le scorie italiane sono distribuite in 23 siti all’interno di decine di depositi temporanei. Alcuni si trovano all’interno delle ex centrali e impianti nucleari gestiti da Sogin, oggi in fase di smantellamento, altri sono depositi in condizioni precarie (emblematico l’ex deposito privato della fallita Cemerad di Statte, in provincia di Taranto). La carta nazionale delle aree potenzialmente idonee dovrà essere pubblicata entro l’anno ed era attesa ad agosto. La creazione di un unico deposito è ineludibile: ogni paese europeo ne è dotato e ciascuno stato deve essere capace di gestire i suoi rifiuti, pena multa milionaria dell’Unione europea.
Sogin è la società statale deputata a gestire la chiusura definitiva dell’epoca elettronucleare italiana e in Italia ambisce a replicare l’approccio e il percorso della “sorella” francese Agence nationale pour la gestion des déchets radioactifs (Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi, Andra) in fatto di relazioni con le comunità locali interessate dalla presenza del deposito.
Madame Françoise Donize è il sindaco di Ville-aux-Bois, un villaggio di trentadue anime nel dipartimento dell’Aube nella regione della Champagne-Ardenne a 250 km a sud-ovest di Parigi. Donize, signora sulla sessantina, è nata e cresciuta nel comune che ora amministra e che alle presidenziali del 2012 consegnò al centrista François Bayrou la percentuale più elevata di consensi a livello nazionale. Per lungo tempo la sua principale occupazione è stata gestire un’azienda agricola con il marito. Nel 1990 ha deciso di dedicarsi alla politica quando sono arrivati in zona i tecnici dell’Andra per fare i primi rilievi geologici. Gli studi confermavano la volontà del governo: il territorio dove lei vive da sempre, tra boschi di lecci e di faggi, campi coltivati a cavolo e a barbabietola, pascoli per bovini e pecore, era idoneo a costruire un deposito permanente di scorie radioattive. “Osteggiavamo il deposito – dice Donize – perché il nucleare ci faceva molta paura”. Era fresco il ricordo del disastro alla centrale sovietica di Chernobyl del 1986. La distinzione tra una centrale – ovvero un sito attivo di produzione di energia termoelettica da reazione di fissione nucleare – e un deposito di scorie – ovvero un sito statico e passivo di custodia dei rifiuti fino a decadimento della radioattività – non era né automatica né scontata.
La totalità degli abitanti, circa 2.800 persone distribuite nei ventuno comuni interessati, dimostrò dissenso sia con un referendum consultivo di parere contrario all’iniziativa sia con manifestazioni cittadine (durante una di queste un parlamentare venne costretto alla fuga dalla folla furiosa). “Era inutile dimenarsi – dice Donize – non c’era margine di scelta perché lo stato aveva deciso così”. Per alcuni anni l’ostilità è proseguita. Per superare l’impasse i funzionari dell’Andra hanno incontrato più volte i rappresentanti delle comunità locali per informarli sul processo, sugli eventuali rischi connessi, sulle tecnologie utilizzate e sul sistema di controlli affinché potessero condividere le informazioni con i cittadini e quindi organizzare assemblee pubbliche per discutere e chiarire i dubbi. Philippe Lievre, ex sindacalista, vicepresidente della locale comunità dei comuni, un organo analogo alla provincia in Italia, dice che, grazie a una capillare informazione data con la massima trasparenza, l’antifona è cambiata. “Abbiamo capito di avere un problema che doveva essere risolto: smaltire le scorie prodotte e quelle in produzione. Ce ne siamo incaricati perché lo chiedeva la Francia”, dice Lievre.
Immagine a sinistra: i siti italiani dove sono temporaneamente distribuite le scorie dell’epoca nucleare italiana - Immagine a destra: i depositi nazionali di rifiuti nucleari in Europa (fonte: Sogin)
Nel 1992 inizia dunque la costruzione del secondo sito nazionale gestito da Andra (il primo a Manche, Bassa Normandia, risalente al 1969, era arrivato a saturazione e quindi chiuso nel 1995). Il sito sorge in un’area boscosa a 60 km da Troyes, capoluogo del dipartimento dell’Aube nella regione della Champagne-Ardenne. E’ un deposito di superficie – quindi non sotterraneo – che si sviluppa su 95 ettari, per circa un terzo già riempito. E’ costruito per custodire un milione di metri cubi di rifiuti a bassa e media radioattività per 300 anni, ovvero finché la loro radioattività non decade. I rifiuti prodotti in Francia derivano dall’industria termonucleare (59 per cento), dalla ricerca (26), dalla difesa (11), dalla industria non termo-nucleare (3), e dalla medicina nucleare (1); stime Andra del 2010. L’Italia dovrà chiudere con il suo passato nucleare e smaltire in un deposito superficiale analogo a quello francese i rifiuti a bassa e media attività provenienti dallo smantellamento degli impianti (componenti e parti d’impianto non decontaminabili, olii, filtri, indumenti dei lavoratori, ecc.) e i rifiuti radioattivi provenienti dal campo medicale, prodotti in primis da alcuni macchinari per trattamenti diagnostici e terapeutici. Quelli ad alta attività, fra cui il combustibile esausto, che si trovano in Francia e nel Regno Unito ma che l’Italia dovrà riprendersi e stoccare temporaneamente nel futuro sito in attesa del loro smaltimento in un deposito geologico di profondità.
Non c’è personale militare a presidiare il deposito di Aube. Non è un obiettivo sensibile. E’ composto da decine di colossali parallelepipedi di cemento armato (10 metri di altezza per 60 di lunghezza) a mescola speciale per ridurre al massimo la porosità e quindi limitare la possibilità di infiltrazioni d’acqua. I parallelepipedi, o celle, vengono riempiti con fusti in cemento armato o in acciaio, contenenti i rifiuti radioattivi trattati. I bidoni sono tracciati con codice a barre per risalire al cliente (paga 5.000 euro circa a metro/cubo stoccato), alla provenienza, al contenuto e alla posizione dentro la cella. La cella è satura quando sette piani sono colmi. Sotto ogni cella, a sei metri di profondità circa, c’è una galleria con un sistema idraulico che cattura le eventuali infiltrazioni d’acqua per evitare il contatto con la nuda terra. In un anno da una cella dell’Andra “sgorga” l’equivalente di un bicchiere d’acqua, raccolta e analizzata. L’intero deposito poggia su uno spesso strato di sabbia. La sabbia a sua volta poggia in profondità su una barriera geologica argillosa. Ciò al fine di azzerare il rischio di contaminare la falda acquifera. Al termine della visita, la radioattività assorbita dal dosimetro, strumento che valuta l’esposizione individuale alle radiazioni ionizzanti, è pari a zero.
Tra gli aspetti negativi della presenza del deposito, monsieur Lievre che è anche sindaco del comune Juzanvigny indica “il rischio derivante dalla presenza di una struttura da monitorare costantemente, ma – dice – il fatto stesso che sia controllata e che sia garantita la salute dei cittadini e dell’ambiente attraverso monitoraggi dell’acqua dei fiumi e di falda, dell’aria, dell’erba, del latte delle vacche, lo rende un rischio relativo”.
[**Video_box_2**]I cittadini associati nel Centre local d’information (Cli), organo autonomo finanziato da stato e dipartimento, possono poi effettuare quando vogliono analisi e studi epidemiologici indipendenti per confrontarli con i dati pubblicati dall’Andra per verificarne la correttezza. Finora i risultati combaciano, dicono entrambi.
Tra gli aspetti positivi ci sono invece una serie di compensazioni economiche che i villaggi circostanti il deposito ricevono a titolo di risarcimento per essersi incaricati di un rischio. Andra ha dato inizialmente 10 milioni di euro (una tantum) alle comunità locali per accompagnare il territorio con infrastrutture e versa 13 milioni di imposte l’anno che vanno in misura decrescente all’Autorità per la sicurezza, ai comuni – con un ammontare variabile secondo la vicinanza al sito – alla regione e allo stato.
I nostri interlocutori dicono che grazie al sistema di compensazioni, che comprende anche la fornitura di servizi, hanno potuto tra l’altro creare un centro di aggregazione giovanile e dopo-scuola, un centro medico polifunzionale, servizi per i portatori di handicap, e potenziare l’agricoltura e il turismo. Il sito porta anche visitatori curiosi di capirne il funzionamento: nel 2011 più di 3.700 persone hanno visitato il centro di stoccaggio, secondo Andra.
L’agricoltura è la principale fonte locale di reddito e lavoro e non ha risentito della presenza del deposito. Per esempio, non c’è stato boicottaggio dei prodotti locali da parte della grande distribuzione – nessuna sindrome da psicosi à la Terra dei fuochi, dunque. I cavoli di diverse varietà hanno continuato a essere venduti in quantità. La produzione di uve dalle vigne da cui si ricava lo Champagne è aumentata. Fino al 2005, per la fase di avviamento, il personale specializzato arrivava da tutta la Francia, secondo necessità tecniche di Andra. Dopodiché, è stato assunto in massima parte personale in loco.
Venticinque anni fa, l’Andra era considerata un’ingombrante organizzazione percepita come pericolosa ora, per i rappresentanti locali, è un bonario messo mandato al feudo dall’imperatore a spargere benessere. Voilà.