Una coda all'Expo non fa trasparenza
Conoscere con precisione i risultati prodotti dal più importante evento pubblico dell'anno è una questione di responsabilità da parte di chi ha amministrato i soldi e gestito l'evento. Più che di storytelling parliamo di accountability.
Roma. Nell’Italia del 2015 anche le code sono motivo di vanto – le code dell’Expo, per l’esattezza. Le avete viste fotografate su tutti i giornali, affogate in celebrazioni estatiche. Nell’era dello storytelling, non sono i numeri a determinare il “successo straordinario” della kermesse, ma gli scatti frustrati degli avventori in attesa. E' vero che un’immagine vale più di mille parole, ma – parlando del più importante evento pubblico dell’anno, e non dell’inaugurazione del nuovo locale di Briatore – sarebbe auspicabile un’analisi meno grossolana. Per esempio, quanti biglietti ha venduto finora la manifestazione milanese, a fronte dei venti milioni prospettati dall’organizzazione? Mistero gaudioso.
Sin dall’inizio dell’Expo, la società organizzatrice ha fatto muro contro tutte le richieste di trasparenza, anche quelle provenienti dai propri pubblici azionisti – memorabile la tenzone con il consiglio comunale di Milano, culminata nell’audizione del commissario Giuseppe Sala. I dati, ci hanno spiegato, non vanno semplicemente diffusi, bensì interpretati – il che equivale a dire che ai cittadini (e ai consiglieri comunali) la verità va somministrata a piccole dosi, e possibilmente già masticata. A metà luglio sono comparse le prime cifre: peccato che i 7,4 milioni di visitatori rivendicati scontassero i malfunzionamenti dei sistemi di raccolta dei dati e le sofferenze dei tornelli, che mal sopportavano le temperature del torrido maggio milanese. Nelle ultime settimane l’organizzazione ha iniziato a pubblicare con maggiore regolarità i dati degli ingressi, ma anche in questo caso si tratta di rilevazioni non depurate dagli accrediti (dipendenti e collaboratori, celebrità, e altri ospiti), la cui consistenza si stima in circa 10.000 unità al giorno – 300.000 al mese circa.
Se ci fosse un'accountability degna della sua definizione, ossia la responsabilità nel definire gli obiettivi di un'impresa, con annessa aderenza ai risultati prestabiliti e trasparenza nella comunicazione di quelli ottenuti, la società pubblica incaricata della gestione di una manifestazione destinataria d’ingentissime risorse (1,7 miliardi di investimenti) e da mesi al centro delle campagne di comunicazione del governo, comprenderebbe l’esigenza di assicurare la più ampia divulgazione sul suo andamento. Certamente ciò include la possibilità di apprendere il numero di visitatori paganti da dati ufficiali affidabili, anziché ricorrere ad ardite elaborazioni sulla base della quantità di parcheggi liberi, del livello di utilizzo dei mezzi di trasporto, dei dati di vendita di bevande al baobab o salamelle di ghepardo; in sostanza il ricorso sistematico a delle proxy poco affidabili per evitare la pubblicazione di un dato tutto sommato non complicato da reperire per chi gestisce la macchina organizzativa.
Una convinta scelta di accountability, però, richiederebbe anche qualcosa di più, di più puntuale e complesso: un’analisi dei flussi turistici, una stima dei risultati economici complessivi, una valutazione dell’impatto sulla vita dei cittadini. Certo, ci sarà tempo per provvedere anche nelle settimane successive alla chiusura: ma a patto che questi dati esistano; e, se esistono, non si capisce perché nasconderli visto che il successo è ormai dato per raggiunto e quindi per scontato dalle autorità politiche e dai protagonisti dell'organizzazione.
[**Video_box_2**]Il sospetto è che i dati non siano funzionali al racconto che si vuole costruire attorno all’Expo. Per esempio, rievocando le stime della vigilia, scopriamo che i 250.000 visitatori raggiunti sabato scorso non sono affatto un traguardo eccezionale, bensì il target previsto per tutti i sabati e le domeniche della manifestazione, con l’eccezione del primo mese d’apertura. E allora, più che un successo di pubblico, le code sterminate sembrano indicare una mancanza dell’organizzazione, incapace di gestire livelli di affluenza ampiamente anticipati, perciò si creano ingorghi all'ingresso. La buona riuscita dell’Expo rimane tutta da provare e certo non si esaurisce nella sua percezione popolare. Perché se è vero che “una comunità nazionale vive anche di emozioni”, come ha detto Matteo Renzi, è altresì palese che le statistiche rimangono il terreno più solido su cui fondare la valutazione delle politiche pubbliche. Con buona pace del presidente del Consiglio dei ministri.