Alla guerra dei tassi

Marco Valerio Lo Prete
Chi tifa per una stretta monetaria della Fed (BuBa, Bri e Ocse) e chi s’oppone (Fmi, Banca mondiale, G20)

Roma. Ieri anche Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank, è intervenuto per dire la sua sull’appuntamento più atteso di queste settimane nei mercati internazionali, cioè la riunione della Federal reserve americana che oggi potrebbe decidere di alzare il costo del denaro per la prima volta dall’inizio della crisi nel 2007. Il banchiere centrale tedesco, intervistato dalla Süddeutsche Zeitung, si è mostrato  tutt’altro che contrario a una stretta della politica monetaria: “Un possibile aumento del tasso di interesse negli Stati Uniti sarebbe presumibilmente una reazione a una ripresa congiunturale consolidata, che in sé e per sé avrebbe un effetto positivo sull’economia mondiale”. Weidmann, fautore ortodosso di una moneta stabile, non cede a quanti prevedono pericolosi scossoni di assestamento in tutto il mondo sulla scia di una normalizzazione a Washington: “E’ arrivato il momento di prepararsi a tale evenienza”.

 

Politici e operatori di mercato si lamentano? “Da tale dibattito risulta evidente che non è semplice abbandonare la fase di estremo allentamento in cui si trova la politica monetaria attuale”, dice il banchiere tedesco che più si è opposto all’acquisto di titoli di stato e asset (Quantitative easing) da parte della Banca centrale europea. E Weidmann oggi sarebbe un curioso alleato per la Yellen, dopo che l’atteggiamento tedesco nella gestione della crisi dell’euro è stato più volte criticato ufficialmente dall’America.

 

Tuttavia non è escluso che la Fed decida anche questa volta di deludere il “falco” tedesco, di rinviare la scelta in autunno, e di ascoltare i richiami delle “colombe” scese straordinariamente in campo per l’occasione: Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e G20.

 

Fino a domenica scorsa, infatti, le pressioni internazionali sulla Fed erano state a senso unico: cara Yellen, non è il momento di fare gli sparagnini con la politica monetaria, questo il senso degli interventi (inusuali) delle organizzazioni internazionali. Prima il Fondo monetario internazionale. Poi la Banca mondiale, con un’intervista del suo capo economista Kaushik Basu al Financial Times, il quale aveva messo in guardia dalla “grande crisi” che potrebbe discendere da un rialzo dei tassi troppo vicino nel tempo. Infine la discussione dietro le quinte al G20 finanziario di Ankara: come sottolineato da Pietro Saccò su Avvenire, Washington allora “ha dovuto insistere per evitare che nel comunicato finale del vertice ci fosse un preciso riferimento alle mosse della Fed”. 

 

[**Video_box_2**]Da domenica, invece, è partita la carica dei “normalizzatori”, quelli che alla Yellen chiedono di tirare la cinghia monetaria per dare una lezione al mondo che altrimenti rischia di assuefarsi al denaro a basso costo. A guidare il manipolo è stato un italiano, Claudio Borio, capo economista della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), la Banca centrale delle Banche centrali con sede a Basilea. Borio, autorevole contrarian, prima nel rapporto trimestrale della Bri, e poi lunedì in un seminario a Bruxelles, ha detto che “la politica monetaria è stata sovraccaricata (overburdened, in inglese) per troppo tempo”. E’ anche in conseguenza degli stimoli monetari prolungati che assistiamo a “un’aggressiva presa di rischi nei mercati finanziari”, a fronte di una certa timidezza nell’economia reale. Né “l’allocazione distorta dei capitali” contribuisce a frenare l’incremento del debito pubblico e privato, che anzi nei paesi avanzati sono passati dal 125 per cento del pil (fine 2007) al 140 per cento (fine 2014), o a puntellare la produttività. Se la Fed in queste ore lanciasse un pur flebile monito, avvertendo che la sbornia monetaria sta per passare, i governi si concentrerebbero più seriamente sulle riforme strutturali. Borio su questo sembra pensarla come Weidmann che – è solo un caso – dal 1° novembre diventerà anche presidente della Bri. Ieri infine è stata la volta dell’Ocse, il think tank economico dei paesi di antica industrializzazione, secondo cui la Fed “ha necessità di iniziare ad alzare i tassi presto”, ma il ritmo dell’aumento dev’essere “graduale”. Nemmeno l’Italia ovviamente è immune agli andamenti della liquidità mondiale. Così ieri, per un Gian Maria Gros-Pietro (presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo) che sperava in un aumento non immediato dei tassi, c’era il più ottimista Antonio Patuelli (presidente dell’Associazione bancaria italiana) secondo cui il mercato ha già “scontato parzialmente” una stretta. Tra poche ore, ci sarà una risposta per tutti.

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