Prima “modello”, poi “truffa”
“Facciamo come alla Volkswagen!”. Dov'è adesso quel partito italiano pro VW?
Roma. “Gli altri gruppi automobilistici come Volkswagen hanno investito nell’auto pulita e sono riusciti a restare competitivi in Italia e in Europa. Invece la Fiat ha deciso di produrre Suv negli impianti Mirafiori”. Angelo Bonelli, presidente dei Verdi italiani, nel 2012 aveva già la spiegazione della possibile (e non ancora avvenuta) dipartita di Fiat dal nostro paese. Tutta colpa delle tecnologie pulite su cui il colosso di Wolfsburg aveva puntato per tempo, a differenza del Lingotto. Da domenica però si è saputo che fin dal 2009 la Volkswagen avrebbe raggirato i controlli americani per far apparire più puliti i suoi diesel. Mercoledì il governo tedesco ha negato di essere a conoscenza del trucco, il ceo Martin Winterkorn si è dimesso e adesso Confindustria teme “scossoni” per le nostre aziende. D’altronde l’allure verde di Vw, finora, era inscalfibile; così tre anni fa anche i senatori della corrente ecologista del Pd presero le difese del gruppo green per antonomasia, allora criticato da Sergio Marchionne (ad di Fiat) per la sua politica dei prezzi.
Né Vw è stata soltanto un simbolo verde. La società tedesca, dal 2010 fino alla settimana scorsa, ha incarnato – agli occhi di un variegato “partito” italiano – tutto ciò che la vituperata Fiat di Marchionne non sapeva essere. Un’impresa che macina profitti, si compiaceva il comunista rifondarolo Fausto Bertinotti: “Marchionne ha fallito come imprenditore perché Vw negli ultimi due anni ha tenuto, la Fiat è precipitata”. Un’impresa che “ha piani di sviluppo per far lavorare i tedeschi” (Antonio Di Pietro), ma allo stesso tempo possiede una “strategia globale” e non “americanizzata” (Susanna Camusso, segretario generale della Cgil). E pazienza se un pezzo di quella “strategia globale” oggi è sotto inchiesta delle procure di mezzo mondo, su input americano, per una “truffa” più che per un mero “scandalo” (vedi Riccardo Ruggeri a pagina quattro). Pazienza, insomma, perché “i lavoratori del nord guardano con ben motivata invidia la cogestione con i sindacati dentro Vw”, diceva il leghista Mario Borghezio. Anche al presidente piddino della regione Toscana Enrico Rossi piaceva “il modello Volkswagen, basato sul ruolo forte di stato e parti sociali”, mentre Giorgio Cremaschi della Fiom vedeva nel “controllo pubblico di VW” un esempio da imitare “nazionalizzando Fiat”.
[**Video_box_2**]Che poi quegli stessi azionisti pubblici e quelle parti sociali così coinvolte nella conduzione aziendale cadano oggi dal pero di fronte alla supposta manomissione di almeno 11 milioni di veicoli, beh, è solo un dettaglio. Perché in Italia il “modello tedesco”, negli anni della polemica anti rupture marchionnesca, è stata sempre e solo sinonimo della munifica “Mitbestimmung”; come se la moderazione salariale e la flessibilità produttiva accettate all’inizio degli anni 2000 dal sindacato metalmeccanico Ig Metall dentro Vw fossero irrilevanti per la riconquistata competitività del gruppo. Maurizio Landini, autonominato generale sul campo degli anti Marchionne, in piazza e nei talk-show voleva parlare esclusivamente dei “modelli” di auto che Vw sfornava senza sosta e su cui invece Marchionne nicchiava. Datemi un modello e solleverò Fiat, era il mantra di chiunque non sedesse nel cda del Lingotto, incluso Carlo De Benedetti (“Vw presenta 16 nuovi modelli di qui al 2016, mentre a Torino i progettisti sono in cassa integrazione”). Romano Prodi indicava Wolfsburg per ammonire “governo e sindacati” sull’importanza delle “strutture di ricerca e sindacati” in Fiat. Per il preparatissimo Massimo Mucchetti, sulle colonne del Corriere della Sera, il confronto Vw-Fiat era uno dei generi preferiti; perché Vw “di modello in modello, raccoglie le reazioni della clientela, corregge, migliora. Consolida la reputazione”, anche se “certo rimanere al tavolo dell’innovazione costa”. E ora che la reputazione mutilata di Vw sta provocando uno psicodramma in Germania, che ne sarà degli appelli a fare spazio per Vw in Italia (anche a suon di incentivi pubblici, sempre Mucchetti e Landini), o dell’invito della Fiom a vendere Mirafiori al colosso tedesco?