Immigrazione libera, ma zero welfare. Ecco come fare
Milano. Il tema dell’immigrazione è qui per restare. L’enorme flusso di persone in fuga da paesi in guerra o semplicemente in cerca di migliori condizioni economiche non è un evento transitorio, ma un fenomeno con cui si dovrà fare i conti per molti anni. Anche se ieri sera a Bruxelles il Consiglio dei capi di governo dell’Unione europea si è riunito per approvare definitivamente la redistribuzione di 120 mila rifugiati tra i paesi Ue. Anche se dovessero in qualche modo risolversi le guerre civili e le crisi politiche mediorientali all’origine del grande esodo, in un mondo sempre più piccolo in cui il progresso tecnologico e l’abbattimento delle barriere economiche rendono semplici e meno costosi gli scambi, anche le persone si muoveranno di più e più velocemente. Come le attività industriali e i capitali tendono a spostarsi dove le opportunità sono migliori e i salari più bassi, allo stesso modo i lavoratori tendono a trasferirsi laddove le retribuzioni sono più alte. In quest’ottica la rimozione degli ostacoli politici allo spostamento delle persone permetterebbe un’allocazione migliore delle risorse umane (allo stesso modo dei capitali) e darebbe impulso alla crescita economica. Questa è un po’ la tesi degli “open borders”: chi è favorevole al libero mercato non può essere contrario all’immigrazione, perché – dicono – non si può essere a favore del libero spostamento di merci e capitali e contro a quello degli individui. Sempre nell’universo liberal-libertario ci sono però delle obiezioni a questo approccio. Sul Foglio è stata ad esempio presentata la tesi di Hans-Herman Hoppe – filosofo tedesco, allievo di Jürgen Habermas, ma poi convertitosi al libertarianism da discepolo di Murray Rothbard – secondo cui non si può applicare la piena libertà in società come le nostre dove una larga parte di beni, servizi e capitali è gestita dallo stato con logiche collettiviste. Chi viene nei paesi europei accede a una serie di benefici e servizi pagati da altri: scuola, assistenza, trasporti, sanità. In una società completamente privatizzata il problema dell’immigrazione non si pone nemmeno, ognuno è libero di trasferirsi in accordo con gli altri, mentre esiste nei paesi dove c’è un welfare ampio.
In sostanza la discussione e la frattura politico-sociale sul tema dell’accoglienza riguarda l’uso delle risorse pubbliche. Ormai in pochi mettono in discussione la legittimità della permanenza degli immigrati che hanno un lavoro, è assodato il loro apporto positivo all’economia, ma viene rigettata l’immigrazione di chi arriva e usufruisce dei benefici welfaristici pagati dai già residenti. Non solo i paesi dell’est Europa, ma anche paesi nordici dalla forte impronta social-democratica come la Danimarca, tradizionalmente generosi nell’accoglienza, hanno chiuso le frontiere e bloccato le ferrovie. L’ottimo trattamento economico rende questi paesi mète preferite da profughi e immigrati e il loro massiccio arrivo pesa sui bilanci e alimenta le tensioni tra la popolazione attorno al tema della redistribuzione delle risorse. A ben guardare la pressione migratoria sta mettendo in discussione proprio le basi sia concettuali sia economiche del welfare state.Ed è proprio partendo da questa constatazione che David Friedman – poliedrico teorico libertario con studi che vanno dall’economia alla filosofia passando per la fisica, professore di diritto all’Università di Santa Clara e figlio classe 1945 del Nobel per l’economia Milton – vede l’apertura delle frontiere ai migranti come una soluzione positiva per l’Europa. “La volontà di alcuni stati di accogliere rifugiati e trattarli generosamente, combinata con i conflitti che producono un gran numero di rifugiati sta creando una marea di aspiranti residenti alle frontiere meridionali e orientali dell’Europa – dice Friedman – Un modo in cui l’Ue può rispondere è limitando l’immigrazione. Però è difficile farlo quando molti scappano da pericoli reali e quindi sono oggetto di naturale simpatia. La restrizione all’immigrazione poi è resa difficile dal fatto che le frontiere vengono controllate a livello nazionale e paesi con un welfare ridotto possono lasciare i confini aperti sapendo che gli immigrati transiteranno verso posti più ricchi”. Le restrizioni sono quindi rimedi inefficaci. Friedman, che è il capofila della visione utilitarista del libertarismo, differente dall’impostazione giusnaturalista di Rothbard e Hoppe, anche in questo caso ritiene che la libertà sia un’opzione più efficiente dei vincoli statali: “Un’alternativa è quella di offrire asilo a condizioni sufficientemente poco attrattive in modo che solo le persone in fuga da pericoli reali saranno inclini ad accettare. La mia proposta – dice al Foglio David Friedman – è immigrazione libera, ma senza alcuna pretesa di benefici welfaristici”.
Il teorico anarco-capitalista aveva messo nero su bianco l’idea oltre 40 anni fa nel suo libro-manifesto “The Machinery of Freedom” (pubblicato in Italia da LiberiLibri con il titolo “L’ingranaggio della libertà”), proponendo nient’altro che la politica applicata dagli Stati Uniti con risultati positivi all’inizio del Novecento, quando in poco tempo arrivarono milioni di immigrati: “Queste persone, e i loro discendenti, hanno contribuito alla creazione di gran parte della nostra ricchezza economiche e culturali. La restrizione all’immigrazione è un errore: dovremmo abolirla e riprendere quella vincente lotta alla povertà che è stata esempio unico nella storia”. Libera immigrazione, nessun beneficio derivante dall’assistenza pubblica e abolizione della legislazione sul salario minimo che mette fuori mercato i nuovi arrivati: “A patto che gli immigrati paghino per ciò che usano, essi non rendono più povero il resto della società. Un’immigrazione senza restrizioni ci renderebbe tutti più ricchi, come è avvenuto in passato. La nostra ricchezza è nelle persone, non nelle cose”, sosteneva allora come oggi Friedman.
[**Video_box_2**]Secondo la visione utilitarista del teorico libertario, questo approccio avrebbe il merito di conciliare sia le istanze di chi, solitamente a sinistra, si preoccupa di dare un’opportunità a chi fugge dalla miseria, sia l’allarme di chi, solitamente a destra, si preoccupa dell’insostenibilità per i conti pubblici di un’apertura indiscriminata. “E’ una soluzione ottimale per chi è favorevole alla libera immigrazione ma si oppone alla redistribuzione pubblica delle risorse. La stessa soluzione dovrebbe essere ottimale anche per chi è favorevole alla redistribuzione per motivi egalitari – dice Friedman – Frontiere aperte e abolizione dei trasferimenti pubblici possono aumentare la disuguaglianza negli stati, ma di sicuro riducono la disuguaglianza su scala globale, perché ne beneficerebbero i poveri che sono molto più poveri dei poveri di Stati Uniti o Germania”. Ma secondo un paladino del libero mercato come Friedman, c’è un altro motivo per cui gli avversari del Leviatano dovrebbero essere favorevoli all’immigrazione libera: se per una larga parte del mondo liberale la spesa pubblica rappresenta un limite all’immigrazione, è altrettanto vero che l’immigrazione mostra i limiti di un sistema sempre più inadeguato come il welfare state. “Guardiamo l’altra faccia della medaglia – dice Friedman – L’esistenza del welfare state può indubbiamente rendere l’immigrazione meno attraente. Ma l’esistenza di un’immigrazione libera rende anche il welfare state meno attraente, che per chi si oppone al welfare state è un ulteriore argomento a favore dell’immigrazione libera”. Per produrre maggiori benefici per tutti, la risposta anche in questo caso è “meno stato e più mercato”. Parola di utilitarista (libertario).