“Vi spiego perché stiamo vivendo il miracolo dell'economia”
Roma. “Il mondo è incredibilmente complesso, ma così incredibilmente semplice. Tutto è un miracolo, come diceva Einstein. E’ miracoloso come funziona l’economia: per fare un computer ci sono un lavoratore cinese, un minatore tedesco, un ricercatore americano. E’ come un corpo che lavora per tutto il tempo, ogni giorno, da sempre”. Arthur Laffer di anno in anno – il Foglio l’ha incontrato anche nel 2014 – si convince che gli Stati Uniti avranno un futuro splendido e così pure il resto del mondo. Sono molti a sostenere l’esatto opposto, ma a Laffer non importa. A settantacinque anni, portati come se fossero trenta di meno, i suoi occhi brillano e non riesce a stare seduto in poltrona nel constatare la “magnifica forza del libero commercio e della domanda e dell’offerta che livella e sostiene il mondo”. Meccanismo perfetto ed esplosivo. Ma ammetterà, professore, che in questo equilibrio di forze, in realtà molto terreno, anche un “credente osservante” ha buone ragioni di vacillare se, ad esempio, osserva l’infarto dell’economia cinese? “Queste cose succedono, cadi e ti rialzi. Negli anni Settanta il 95 per cento della produzione cinese derivava da aziende pubbliche. Nell’ottobre del 1970 sono stato uno dei primi americani ad andare in Cina, precedevamo Henry Kissinger con una delegazione. Ero prevenuto, chiuso nei loro confronti. Ma poi mi sono innamorato della Cina. Oggi la produzione da aziende pubbliche è pari al 22 per cento. Questo è in pratica un enorme taglio delle tasse, perché la spesa pubblica vuol dire quello. Nel 1994 hanno legato la loro moneta al dollaro, rendendola stabile, si sono aperti al commercio internazionale, e hanno di fatto ridotto il peso dello stato. Sono i tre pilastri della supplyside economics – di cui Laffer è teorico assieme a Robert Mundell e Jude Wanniski – ed è stato un boom! La Cina di oggi è irriconoscibile e fantastica rispetto a quella che ho conosciuto io: le persone che sono uscite dalla povertà per diventare classe media sono più numerose che nel resto dell’umanità, non è mai successo in nessuna epoca a questi ritmi. Il problema è se il governo interviene pensando di sistemare le cose, in realtà facendo peggio. D’altronde è successo nel 1930, e abbiamo avuto la Grande depressione, e nella passata recessione. Non sappiamo come sarebbe andata altrimenti. Ci sono ricette sbagliate, da dimenticare: se tassi le persone che lavorano e sussidi i disoccupati, se tassi la ricchezza e dai i soldi ai poveri, avrai molte persone povere e nessun ricco. Devo aggiungere altro?”.
Ascoltando i candidati, sia repubblicani sia democratici, almeno nella prima fase della campagna elettorale, sembra che l’America si prepari ad assumere una posizione tendente all’ostilità verso la Cina. Sarà questa la linea strategica futura o dobbiamo derubricare le chiacchiere a propaganda? “Sono tutti in campagna. Non credo che l’America si metterà contro il libero commercio. C’è un motivo semplice: conosce la catena di supermercati Walmart? Senza le produzioni cinesi, non c’è Walmart. Senza Walmart non esiste la prosperità della classe media né americana né cinese. I prezzi sono bassi e fanno ricchi anche i lavoratori cinesi che producono i beni ammassati sugli scaffali. E’ un vantaggio per tutti, win-win. La Cina, a mio avviso, dovrebbe essere il migliore amico dell’America e non il suo peggior nemico”. In una campagna elettorale americana, dove raramente si è sentito parlare di specifiche politiche economiche, Laffer non ha potuto che esultare nel sentire un candidato repubblicano di peso come Jeb Bush annunciare un piano di crescita e aumento dei salari prodotto da un taglio delle imposte. Ovvero il ritorno della Reaganomics, per quanto corretta secondo la sensibilità dell’ex governatore della Florida (con l’abbattimento dell’aliquota massima delle imposte sulle persone, sulle aziende – che possono anche spendere subito per i loro investimenti – oltre all’eliminazione della tassazione sugli immobili).
[**Video_box_2**]“I politici sono il prodotto dell’ambiente e non dei princìpi, possono cambiare i loro speech a seconda dei ‘boooh’ che ricevono. Ma introdurre questo discorso concreto, costringe a parlare di una questione essenziale. E sta succedendo in altri posti del mondo, e io ne sono felice. In Italia l’ambizione è tagliare le tasse, ma ovviamente è importante che si faccia riducendo contemporaneamente la spesa. In Ucraina si vuole passare alla flat tax al 20 per cento, da 90 aliquote differenti. E’ perfetto! Da tutta la vita aspetto un momento come questo”. Professore, ci sono venti di Reaganomics, i marosi della finanza asiatica e occidentale, dice, sono sanabili o comunque ciclici, ma resta l’incognita americana non solo per un disimpegno nell’agone geopolitico ma soprattutto per l’incognita presidenziale. “Ho pochi dubbi anche qui, sostengo sia finito un ciclo e ne cominci un altro. I repubblicani controllano 31 stati su 50. Controllano il Senato, hanno la più ampia maggioranza al Congresso dal 1928. Ci manca solo un posto, ma è un posto davvero importante: la presidenza, e l’avremo. E allora vedremo la rivoluzione economica più imponente dai tempi di Reagan. Vedremo qualcosa di grandioso, un’economia di mercato molto evoluta svilupparsi sotto i nostri occhi. Noi americani siamo diventati ricchi, grassi, felici, e poi ci siamo sentiti in colpa. E abbiamo votato a sinistra. E ora torneremo indietro a destra, come un pendolo, con un nuovo presidente. Ma non mi chieda chi può essere. Non ne ho idea”, dice ridendo. E sarà allora, con “l’avalanche repubblicana pronta a lambire anche l’Europa”, che forse “Dio tornerà ad amare il nostro mondo”, è il pensiero di Laffer. Una coincidenza celeste simile è accaduta solo in un preciso momento storico, tra il 20 gennaio 1981 e il 20 gennaio 1989. Sono gli otto anni dell’Amministrazione Reagan. Allora Dio diede prova di amare il mondo, secondo Laffer. E forse i mortali diedero anche una mano al divino il giorno in cui decisero di non autoflagellarsi di tasse. C’è da sperare si sentano nuovamente ispirati.