Cosa c'è dietro il rinvio del prossimo maxi bond della Cdp renziana
Roma. Non ci sarà a fine anno una nuova obbligazione della Cassa depositi e prestiti, tipo quello che ha furoreggiato a marzo raccogliendo 4 miliardi – quattro volte l’offerta iniziale – tra 70 mila risparmiatori privati. Mai ufficializzata per il traumatico cambio di vertice, la seconda tranche era stata messa in agenda dall’ex amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini e si erano già cominciati a esaminare campagna pubblicitaria e slogan. Ad aprile la Banca centrale europea aveva poi inserito la cassaforte di Via Goito tra gli istituti destinati a beneficiare del Quantitative easing (stimolo monetario) alle condizioni delle agenzie garantite dagli stati come le casse tedesca e francese o la Banca europea degli investimenti.
Ora la cancellazione, che finora rappresenta all’esterno il maggiore segnale di discontinuità del nuovo presidente, Claudio Costamagna, e dell’ad Fabio Gallia, voluti con il blitz del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il motivo principale sono i tassi troppo bassi che non consentirebbero di offrire condizioni paragonabili al precedente bond settennale: 1,75 per cento nei primi due anni ed Euribor a tre mesi più mezzo punto di spread nei successivi. Esperti di mercato dicono che la Cdp non ha per ora necessità di indebitarsi, e se ce ne fosse converrebbe attingere direttamente alla liquidità della Bce; un orizzonte destinato nelle analisi a durare un bel po’. Ci sono anche altre ragioni che riportano ai motivi del cambio di strategia.
La prima è che altre obbligazioni retail sarebbero entrate in concorrenza con i titoli di stato (che viaggiano sugli stessi rendimenti, ma sui Btp decennali) e con quelli delle Poste in attesa di privatizzazione. Tra l’altro sulla raccolta postale, la cui convenzione è stata rinnovata un anno fa, e che fornisce alla Cassa 230 miliardi di euro, per due terzi tenuti a disposizione del ministero dell’Economia, non sono mancate frizioni per le commissioni pagate dalla Cdp, pari allo 0,6-0,7 per cento, oggi non molto convenienti. Infine il nuovo board vuole allontanare le accuse di essere come un nuovo Iri, che negli anni ruggenti ricorreva generosamente al debito per finanziare aziende e opere spesso tutt’altro che strategiche.
[**Video_box_2**]La Cassa si allinea comunque alle banche italiane che giovedì hanno presentato alla Bce domande di liquidità per 2,9 miliardi rispetto ai 93 complessivi delle tre aste precedenti. Si tratta del piano T-ltro (Targeted long term refinancing operation), messo in piedi dall’Eurotower per erogare denaro da girare alle aziende e ai mutui. Le basse richieste, come i 13 miliardi chiesti dal resto d’Europa, pongono tra l’altro a Mario Draghi un dilemma: o in Italia non è più bisogno di credito, il che non è vero visti i consumi e l’inflazione ancora distanti dagli obiettivi, oppure di credito ce n’è fin troppo – la massa liquida nell’Eurozona è stimata in 500 miliardi – ma a condizioni migliori perfino dello 0,05 per cento chiesto in quattro anni dalla Bce.
Terza ipotesi, le banche italiane non sopportano l’ulteriore stretta patrimoniale della nuova vigilanza Bce (un settore del tutto autonomo rispetto a Draghi), come testimonia la lettera di protesta del vicedirettore generale di Bankitalia Fabio Panetta. Dopodiché accade anche che la Popolare di Vicenza, nel pieno della bufera giudiziaria sugli ex vertici e in attesa di rafforzare l’assetto proprietario, annunci il lancio di un prestito al super-tasso del 9 per cento.
In tutti i casi Draghi, che ha detto di esser pronto ad ampliare il Qe – di cui beneficiano anche aziende pubbliche o parapubbliche (ieri l’Eurotower ha sospeso gli acquisti di Asset backed securities garantiti da titoli Volkswagen sulla scorta dello “scandalo emissioni”) – o prolungarlo oltre novembre 2016, dovrà forse iniziare a studiare come fare arrivare i soldi a imprese e famiglie.