Toglietemi tutto, ma non la mia concertazione
Roma. La contrattazione aziendale? L’azzoppamento della concertazione nazionale in Italia? E’ iniziato tutto con una slide mostrata in una stanza del governo. E con un leader d’azienda che, di fronte agli schiaffoni dei sindacati confederali, dice ai suoi collaboratori che stavolta si deve tirare dritto e andare a trattare con i lavoratori azienda per azienda. Solo che la slide di cui sopra non è firmata da Matteo Renzi o da uno dei suoi collaboratori; il capo azienda che si ribella agli “schiaffoni” della triplice non è Giorgio Squinzi; e la rupture in questione non è datata 2015 ma 2010. Il 30 marzo di cinque anni fa, infatti, i rappresentanti di Fiat, durante una riunione al ministero dello Sviluppo, comunicarono alle parti sociali che il Lingotto voleva ricominciare a investire dallo stabilimento “Giambattista Vico” di Pomigliano d’Arco. Il problema si pose quando furono mostrati i “presupposti” – come recitava una slide – di quella svolta. Presupposti poi approfonditi in una nuova riunione nei pressi dello stabilimento campano: per riportare lì la produzione del modello Panda, era necessario lo scorporo dello stabilimento da Fiat Auto e la nascita di una newco che avrebbe applicato un nuovo contratto aziendale. Di fronte al veto irremovibile di una parte dei sindacati, una telefonata di Marchionne da Torino rassicurò i suoi che erano lì a trattare: “Andiamo avanti lo stesso”. Sottinteso: agli schiaffoni dei rappresentanti romani dei lavoratori si risponderà con la consultazione dei lavoratori in loco. Fiat vinse quella sua battaglia aziendale, i lavoratori approvarono in maggioranza quello e altri contratti, la Casa di Torino nel 2012 uscì sbattendo la porta dalla Confindustria che più di un secolo prima aveva contribuito a fondare, gli impianti oggi sono ripartiti e qualche centinaio di nuovi lavoratori è stato assunto.
Cinque anni dopo, di fronte all’intenzione del governo Renzi di intervenire con una legge per consentire deroghe e superamento del contratto collettivo nazionale, al cospetto dell’agitazione che coglie le parti sociali che non hanno trovato un’intesa (tra uno Squinzi che si ribella agli schiaffoni dei sindacati e una Cgil barricadera), ecco che si comprende meglio la portata del feroce ed estenuante dibattito che fu attorno a Marchionne. Il manager in pullover era troppo amerikano per non essere facile bersaglio di strali bipartisan, e il governo Berlusconi era troppo berlusconiano per non essere dipinto come al servizio del capitalista di turno. Cinque anni dopo, gli attori protagonisti sono cambiati ma la sceneggiatura rimane incredibilmente la stessa. Al governo c’è un centrosinistra modernizzante, a guidare la Confindustria c’è un abile industriale della chimica avvezzo al dialogo con la Cgil (“Avere costretto alla rottura un imprenditore come Squinzi che ha sempre creduto nelle relazioni industriali…”, si stupiva mercoledì il Sole 24 Ore), tutto può cambiare ma appena si nomina la contrattazione aziendale, riecco che i diritti sono violati e scoppia il bubbone. Quale? Si disse per anni, a reti quasi unificate, che Marchionne stava “attentando ai diritti fondamentali dei lavoratori”. Perfino gli industriali associati allora nicchiarono, evitando di impostare un confronto pubblico serrato sulla verità effettuale della cosa. Che non è – come pare evidente col senno del poi – quella di Marchionne l’amerikano, o del ministro Maurizio Sacconi troppo berlusconiano, o dei “diritti violati”.
[**Video_box_2**]Stiamo discutendo della possibilità di introdurre in azienda modifiche organizzative e salariali al contratto collettivo nazionale, pur sempre sopra una soglia minima stabilita, e della negoziazione delle stesse modifiche direttamente con i lavoratori. Stiamo parlando cioè della fine di un monopolio sulle relazioni industriali che finora era stato appaltato alla Confindustria romana e alle centrali sindacali nazionali. E’ comprensibile che i monopolisti, sentendosi defraudati, strillino forte. Da qui a pendere dalle loro labbra, però, ce ne passa.