Dopo Algeria e Arabia Saudita, il crollo del prezzo del petrolio scuote l'Angola
Il crollo verticale del prezzo del petrolio non ha forse portato ad un pieno più conveniente per le nostre auto, ma sta senz'altro colpendo alle fondamenta alcune delle gerontocrazie che, in giro per il mondo, proprio grazie all’oro nero hanno puntellato i propri regimi. Dove non ha potuto la piazza, potrà (forse) il barile.
Il crollo verticale del prezzo del petrolio non ha forse portato ad un pieno più conveniente per le nostre auto, ma sta senz'altro colpendo alle fondamenta alcune delle gerontocrazie che, in giro per il mondo, proprio grazie all’oro nero hanno puntellato i propri regimi, comprando pace sociale a suono di sussidi su cibo, elettricità e benzina e lasciando parole come “diversificazione degli introiti” e “privatizzazioni” alle cassandre dell’FMI e della Banca Mondiale.
Approfittando di un decennio e passa di prezzi in salita, paesi come Algeria, Arabia Saudita e Angola – accomunati da una prolungata assenza di ricambio delle rispettive leadership – hanno pompato i propri bilanci, portando sempre più in avanti il cosiddetto fiscal break-even oil price, ovvero la proiezione del costo di un barile di petrolio che permette ad un paese di avere un budget in equilibrio. Secondo i dati dell’FMI, tale prezzo (auspicato) è passato per l’Algeria dai 124 dollari del 2012 ai 132 del 2014, mentre per l’Arabia Saudita l’aumento è stato ancora più consistente: 78 dollari nel 2012, 102 due anni dopo. Il caso angolano è quello però forse più emblematico, passando dagli 82 dollari del 2012 ai quasi 110 di quest’anno.
E così come ad Algeri e a Riyadh, anche a Luanda ci si prepara ad una tempesta perfetta di tagli alla spesa pubblica, aumento della disoccupazione, svalutazione (formale o informale) e richiesta di prestiti dall’estero. A ciò si aggiungono gli avvertimenti nemmeno tanto velati di alcuni investitori stranieri vitali per l’industria estrattiva del paese africano: solo il mese scorso, il direttore generale di Total Angola – la prima azienda produttrice del paese con 700.000 barili al giorno – ha minacciato lo stop alle operazioni se il governo non interverrà sui costi di produzione, aumentati negli ultimi anni in modo esorbitante specie in ambito fiscale. Stesso messaggio lanciato dal direttore della camera di commercio USA-Angola, che ha recentemente sventolato un possibile blocco all’estrazione da parte di molte imprese, stritolate dal barile a 50 dollari, dalle tasse governative e dall’ormai cronica scarsità di valuta straniera, causata dalla crisi nel tasso di cambio tra kwanza e dollaro.
[**Video_box_2**]Alla tempesta perfetta in vista non poteva mancare – così come non manca in Algeria e Arabia Saudita – una forte dimensione politica. Il presidente José Eduardo dos Santos ha giustificato i suoi 36 anni al potere prima con la necessità di guidare un paese in piena guerra civile e poi con il bisogno di avviarne la rinascita, godendo dei dividendi di una pace e di una ricostruzione che galleggiavano sul petrolio. Oggi, con stime di crescita al ribasso e un prezzo del barile che non sembra voler salire (chiedete ai sauditi), sembra che il regime si stia lasciando scappare qualche segnale di nervosismo. L’arresto a giungo di un gruppo di 15 attivisti, accusati di pianificare un colpo di stato per essersi riuniti privatamente a leggere alcuni testi ispirati dal famoso saggio dell’americano Gene Sharp “Dalla Dittatura alla Democrazia” e ancora oggi in prigione, ha avuto un’eco mediatica internazionale che secondo i più cinici sarebbe stata improbabile solo alcuni mesi fa, quando l’Angola era ancora un l’astro nascente dell’economia africana. E in effetti, fa riflettere che i media del Portogallo oggi ospitino tranquillamente le opinioni degli oppositori al regime di dos Santos, dopo che Lisbona negli anni neri della recessione è stata meta privilegiata dei capitali della figlia del presidente (e possibile erede) Isabel, che ha comprato a man bassa quote nel settore bancario, turistico ed energetico dell’ex potenza coloniale.