Non è la busta paga che rivoluzionerà la P.a.
I sindacati hanno annunciato uno sciopero del pubblico impiego a sostegno della richiesta di aumenti retributivi di 150 euro al mese, con tanto di manifestazione fissata per il 28 novembre. Lamentano il blocco della contrattazione che dura da alcuni anni, ma trascurano il fatto che i dipendenti del comparto pubblico in questo periodo travagliato hanno goduto della stabilità del posto di lavoro, a differenza di quelli dei settori esposti alla concorrenza internazionale. In altri paesi durante la fase di crisi i dipendenti pubblici hanno visto decurtate le retribuzioni, mentre da noi queste sono restate intatte, e molti hanno ottenuto aumenti, compresi i cosiddetti premi di produttività erogati a pioggia, come dimostra il fatto che ne hanno beneficiato persino alcuni degli arrestati di Sanremo. Naturalmente anche nel pubblico impiego c’è chi lavora bene e riceve retribuzioni inadeguate, ma nella media generale spiccano dati impressionanti, dall’assenteismo che è il doppio di quello delle imprese private alla produttività reale che non ha subìto incrementi nonostante l’utilizzo di strumenti informatici più moderni. A pagare il pubblico impiego sono tutti i cittadini e i lavoratori con le loro tasse, si potrebbe dire che per dare 150 euro in più a tre milioni di dipendenti pubblici se ne tolgono 30 a ciascuno degli altri quindici milioni di lavoratori. E’ un calcolo rudimentale ma rende l’idea. Perché la collettività dovrebbe accettare questo esborso senza ottenere nulla in cambio? Le inefficienze della Pubblica amministrazione, ovviamente, non possono essere imputate ai dipendenti, ma in parte anch’essi e soprattutto il sistema retributivo che i sindacati difendono contribuiscono a questa situazione paralizzante.
Si può ragionare di un esborso solo in cambio di un mutamento profondo, di un meccanismo di reale verifica della produttività e dell’efficienza, di un sistema retributivo basato sugli stessi criteri vigenti nel settore privato, compresa la reale abolizione dell’inamovibilità dal posto di lavoro anche per fannulloni, incompetenti o menefreghisti. Si dirà che i metodi punitivi non sono quelli più adatti per motivare categorie di lavoratori, ma bisogna anche tener conto del fatto che i vari tentativi di stabilire premi all’efficienza e alla produttività sono stati fagocitati dalla gestione concreta, sempre pattuita con un sindacalismo corporativo.
[**Video_box_2**]Tutti gli studi, interni e internazionali, additano l’inefficienza e le lungaggini della Pubblica amministrazione tra le cause principali della bassa competitività dell’economia italiana, che dura ormai da circa vent’anni. I rinnovi contrattuali dovrebbero essere l’occasione per apportare correzioni a questi difetti, non per consolidarli. Un sindacato che punta alla ripresa economica deve tener conto di questi elementi di fondo, soprattutto quando sottolinea il proprio carattere confederale in contrapposizione a quello corporativo. Invece le confederazioni, per una volta unite ma non per una buona causa, difendono il pubblico impiego com’è e dov’è (basta ricordare l’insensata campagna contro la “deportazione” dei docenti), come l’ultimo baluardo di un “potere sindacale” che invece di uno strumento di stimolo della crescita diventa un vincolo pesante e ricattatorio. Se chiedessero agli altri lavoratori che pur in situazioni di difficoltà dovute alla crisi e alla concorrenza pagano tasse esorbitanti se sono solidali con le richieste dei dipendenti pubblici e con i loro oggettivi privilegi, capirebbero che stanno imboccando una strada sbagliata.
tra debito e crescita