Demografinomics
Sancendo la fine della “politica del figlio unico”, una settimana fa, la Cina ha inferto un colpo formidabile alla “tirannia di un’idea”, come l’ha chiamata Bret Stephens sul Wall Street Journal. Innanzitutto perché Pechino “ha rallentato un esperimento lungo 35 anni nel campo della follia sociale e della crudeltà umana. Una politica istituita in nome della conservazione delle risorse – ha scritto Stephens – ha comportato milioni di sterilizzazioni e aborti forzati, uno sbilanciamento nel rapporto uomo-donna di 118 a 100”, una politica che “più repressiva e illiberale non si può: l’invasione definitiva nella privacy, l’assalto decisivo ai diritti umani delle donne e delle ragazze”. Inoltre, secondo Stephens, non ne esce indenne nemmeno la ricerca continua di “una religione senza Dio” che caratterizzerebbe tanta parte delle élite liberal: buttarsi anima e corpo dietro il tentativo di salvare il mondo, ieri disinnescando la bomba demografica, oggi abbassando la temperatura del pianeta. E questo per dire delle molteplici sfaccettature del dibattito attorno all’evoluzione demografica del pianeta.
In questa pagina, però, ci concentriamo sul legame tra andamento della popolazione e andamento dell’economia, scegliendo alcuni casi nazionali che riteniamo per varie ragioni cruciali. A livello mondiale, come ha scritto Massimo Livi Bacci nel suo “Il pianeta stretto”, appena pubblicato dal Mulino, “viene previsto che la popolazione, che nel 2015 è stimata pari a 7,3 miliardi, cresca a 9,7 miliardi nel 2050 e a 11,2 miliardi nel 2100 (3,9 miliardi più di oggi)”. Con le previsioni al 2050, cioè a una sola generazione di distanza da oggi, “l’incertezza si riduce di parecchio – scrive Livi Bacci, professore di Demografia all’Università di Firenze – e possiamo con una certa sicurezza assumere che la popolazione mondiale aumenterà tra 2 miliardi e 2 miliardi e mezzo nei prossimi 35 anni. Un aumento conseguente a un’ulteriore diminuzione della fecondità dai 2,5 figli per donna di oggi ai 2,2 del 2050, e al continuo allungamento della speranza di vita, da 71 a 77 anni”.
Cina, addio al figlio unico
La decisione del Partito comunista cinese di ammorbidire i vincoli della politica del figlio unico stabilita nel 1970, secondo la più parte degli osservatori, è stata dettata in larga parte da un calcolo economico. In particolare, sarebbe dovuta alla preoccupazione della leadership cinese per il progressivo restringimento della forza lavoro e per il necessario ribilanciamento dell’economia verso i consumi interni. Ad allarmare il Politburo, infatti, non c’è solo il rallentamento del tasso di crescita del pil, che quest’anno potrebbe non raggiungere il 7 per cento delle previsioni ufficiali. Il tasso di fecondità totale nel paese più popoloso del pianeta – con 1.364.270.000 abitanti – è sceso fino a 1,7 figli per donna, ben al di sotto del tasso di fecondità di sostituzione (2,1 figli) e ancora più distante dal 2,4 degli altri paesi di simile ricchezza pro capite. Risultato: secondo l’Onu, la popolazione cinese in età lavorativa (15-59 anni) scenderà del 9 per cento tra quest’anno e il 2030. Lo storico passo compiuto a fine ottobre sarà sufficiente a invertire la rotta? Gli economisti sul punto sono divisi. Gli scettici hanno varie ragioni dalla loro parte: primo, ci vorranno almeno 15 anni perché i figli della “deregolamentazione” entrino a far parte nella forza lavoro; in secondo luogo, non è chiaro quante coppie cinesi sceglieranno di avere più figli adesso che la restrizione è venuta meno (secondo un sondaggio del 2013, quasi il 50 per cento di quanti risiedono nei centri urbani non intende avere più di un figlio); infine, la crescita numerica della forza lavoro, negli ultimi vent’anni, ha contribuito in misura molto contenuta allo sviluppo economico del paese (in media, meno di un punto percentuale di pil ogni anno). Gli ottimisti, invece, puntano sull’effeto di ribilanciamento interno dell’economia. Innanzitutto perché ad oggi meno ingressi nel mondo del lavoro evitano tensioni sociali eccessive; il che non toglie che la forza lavoro rurale, calcolata in circa 300 milioni di persone, sia ancora un bacino di potenziali migrazioni verso le città. Un mercato del lavoro tutt’altro che esplosivo – sostiene tra gli altri Adair Turner, a capo del think tank Inet presidente di quella Uk Financial services authority – porterà dunque a un aumento dei salari reali e questo a sua volta puntellerà una svolta (tanto desiderata) verso un’economia guidata dai consumi e meno influenzata dalla bolla del credito legato alle nuove costruzioni.
Stati Uniti, eccezione o stagnazione secolare
Livi Bacci, nel suo libro, calcola “i rapporti tra le popolazioni dei grandi competitori mondiali”, a partire da Cina e Stati Uniti. Interessante rilevare che il rapporto demografico tra Pechino e Washington, nel 2050, sarà lo stesso del 1950: la popolazione cinese era più che tripla di quella americana nel 1950, poi ha toccato il valore massimo attorno al 2000 (circa quattro volte e mezzo la popolazione americana), e tornerà a essere il triplo fra 35 anni. Ciò dipende dall’autunno demografico cinese descritto poco sopra, ma anche dalla relativa vitalità americana specialmente in rapporto agli altri paesi di antica industrializzazione. Per esempio, se il tasso di fecondità totale è rimasto pari a 1,4 in Italia dal 2011 al 2013 (ultimi dati della Banca mondiale), negli Stati Uniti è stato pari a 1,9 nello stesso periodo, contribuento assieme all’immigrazione ad alimentare una popolazione che alla fine del 2014 ha raggiunto i 318.857.056 di individui. L’America, insomma, non distanzia il Vecchio continente soltanto nella velocità della ripresa economica.
Si vede dai dati sul mercato del lavoro: ieri la Commissione europea ha fatto sapere che il tasso di disoccupazione nei 19 paesi dell’Eurozona è all’11 per cento, più del doppio del tasso americano che è al 5,1 per cento (il livello più basso dalla metà del 2008). Pure dall’altra parte dell’Atlantico, però, c’è un aspetto negativo che i macroeconomisti non dimenticano di considerare, ed ha a che fare anche con la demografia. Negli Stati Uniti rimane infatti a livelli bassissimi, per gli standard locali, il tasso di partecipazione alla forza lavoro, cioè il rapporto tra la forza lavoro – la somma degli occupati e di quei disoccupati che comunque cercano lavoro – e il totale della popolazione in età lavorativa. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro è al 62,4 per cento. Nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, il tasso di partecipazione alla forza lavoro era al 66 per cento. Mentre dunque il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli pre crisi, il mercato del lavoro americano non è più quello di allora. E’ addirittura dal 1978 che non si vedeva infatti una “partecipazione” al mercato del lavoro così bassa. Da una parte c’è il fatto che alcuni di quanti sono stati sospinti improvvisamente fuori dal mercato del lavoro per colpa della crisi potrebbero aver deciso di andare avanti con mezzi di fortuna, appoggiandosi a famiglia, amici e welfare, e oggi non hanno incentivi sufficienti per tornare a cercare lavoro. D’altra parte poi, dalla metà degli anni 2000, milioni di baby-boomers, cioè gli americani nati nella generazione successiva alla Seconda Guerra mondiale, hanno cominciato a superare i 60 anni e ad andare in pensione. Solo il 18 per cento degli over 65 oggi continua a lavorare. Ci sono dunque anche ragioni demografiche dietro la scarsa “partecipazione” al mercato del lavoro americano. Anche per questo l’Economist, commentando la fortunata tesi esposta nel 2013 da Larry Summers a proposito della “stagnazione secolare” americana e occidentale in generale, ha scritto che “la demografia potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel malessere descritto da Summers, un ruolo anche più importante di quello già osservato nella crisi degli anni Trenta”.
Germania, immigrazione e Bundesbank
Secondo la Commissione Ue, il pil tedesco crescerà dell’1,7 per cento quest’anno, poi dell’1,9 per cento sia nel 2016 sia nel 2017. I quasi 81 milioni di tedeschi possono dirsi soddisfatti a fronte della crescita anemica degli altri paesi dell’Eurozona. Eppure da anni lo spettro di una demografia peggio che stagnante si affaccia nel dibattito di politica economica del paese. Fino ai vertici delle istituzioni, come dimostrano i molteplici riferimenti contenuti negli interventi della Bundesbank. Ancora a metà settembre il governatore della potente Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, ha commentato la crisi dei rifugiati sottolineando che l’afflusso straordinario di persone “richiederà molti sforzi da parte del paese, ma l’immigrazione porta con sé anche opportunità. Opportunità che saranno tanto maggiori, quanto avremo più successo nell’integrare queste persone che entrano nella nostra società e nel nostro mercato del lavoro”. Secondo Weidmann, alla luce di un rapido processo di invecchiamento, il paese “ha bisogno di lavoratori aggiuntivi per mantenere la propria prosperità”. L’immigrazione, nel discorso pubblico, è sempre più spesso citata come l’antidoto per eccellenza allo svuotamento delle culle. A condizioni invariate, la popolazione tedesca si ridurrà di un quinto da qui al 2060, ma già nel 2020 ci saranno 1,8 milioni di lavoratori qualificati in meno del necessario. E’ anche da questa consapevolezza così radicata che nasce il cosiddetto “rigore” tedesco applicato alle finanze pubbliche, considerato come l’unico atteggiamento responsabile nei confronti delle generazioni future. Berlino, per esempio, è stata la prima delle grandi capitali europee ad alzare a 67 anni l’età pensionabile, con l’esplicita motivazione di contrastare la fuoriuscita di troppi cittadini dalla forza lavoro. Ma adesso, nel dibattito pubblico, le politiche dell’immigrazione sono le uniche davvero in discussione. Ieri il ministero degli Interni del governo Merkel ha fatto sapere di aver registrato 181.166 rifugiati in ottobre, il che porta il totale da inizio anno a 758.473 persone; se questo ritmo continuerà anche nel resto dell’anno, saranno di gran lunga superate le più recenti stime del Governo di Berlino sugli arrivi tra 800 mila e il milione di persone.
“Nel 1910, durante la Belle Epoque, due milioni di bambini nascevano ogni anno in Germania – ha scritto sul Foglio Giulio Meotti – Un secolo più tardi, con il cinquanta per cento in più di persone, sono meno di 700 mila i nati ogni anno, un terzo stranieri. Nel libro ‘Il complotto di Matusalemme’, Frank Schirrmacher, già responsabile culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitung, scrive che ‘la dinamica della popolazione sarà segnata dalla morte non più dalla nascita, società e cultura saranno scosse da una guerra silenziosa’”. Per il momento non c’è previsione economica – per quanto ottimista – che scongiuri del tutto tale scenario fosco e i suoi corollari non soltanto statistici.
Paesi del Golfo: giovani in cerca d’impiego
I profondi cambiamenti demografici che, durante il boom economico degli ultimi cinque anni, hanno plasmato i paesi del Golfo (Baharain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati arabi uniti) proseguiranno nel prossimo decennio e richiederanno una risposta dai governi alle sfide circa mercato del lavoro, politiche migratorie, ruolo delle donne e creazione di infrastrutture e servizi. I paesi del Golfo insieme hanno tassi medi annuali di crescita della popolazione tra i più alti al mondo (2,8 per cento anno su anno). Dati al 2015: Arabia Saudita (29,59 per cento), Emirati arabi uniti (6,4), Kuwait (4,4), Oman (3,32), Qatar (2,33), Baharein (1,45). La popolazione nell’area passerà dai 39,6 milioni nel 2008 ai 53,4 nel 2020, si tratta di un incremento del 33 per cento in dodici anni. La stragrande maggioranza avrà meno di 25 anni; una popolazione molto giovane a confronto con l’invecchiamento di Stati Uniti ed Europa che solleva serie questioni e altrettanto presenta sicure opportunità di sviluppo. La grande quantità di giovani che hanno un crescente accesso all’educazione di medio e alto livello, ai media globali e alle nuove tecnologie cambierà le norme sociali e il panorama urbano. La popolazione si concentrerà maggiormente nelle grandi città dove ci sarà necessità di infrastrutture e servizi incluse energia, acqua, trasporti, abitazioni, sanità ed educazione. Si creerà un ampio bacino di forza lavoro che probabilmente diventarà difficile da assorbire in toto da un acerbo settore privato e si produrranno, per via della differenza di competenze spendibili sul mercato, disparità sia di aspettative di salario sia di condizioni lavorative tra lavoratori qualificati e meno qualificati. La crescita economica, in passato trainata dal boom petrolifero, ora depotenziato visti i bassi prezzi del greggio, induce a pensare che molto dipenderà dalla capacità di educare le giovani generazioni. Motiva inoltre particolare attenzione il possibile conflitto tra le esigenze dei lavoratori autoctoni e quelli immigrati. Lo scenario elaborato dall’Economist Intelligence Unit sulla demografia nel Golfo al 2020 prevede che la popolazione immigrata non supererà quella autoctona nei prossimi cinque anni; ma non è possibile escludere il contrario. La coda del boom petrolifero – che peraltro sta restringendo il bilancio degli stati rentier – probabilmente comporterà una riduzione dell’oramai consueta richiesta di manodopera immigrata dal subcontinente indiano che potrebbe però essere impiegata in altre attività con competenze richieste più elevate e specifiche. E’ improbabile tuttavia che nazioni così diverse, per una pluralità di fattori, trovino una base comune per gestire le politiche migratorie.
Giappone, “children free”
Il Giappone è un paese senza figli dove la bassa natalità è un’emergenza plueriennale. E’ significativo che i crimini a Tokyo vengano perpetrati da persone non più giovani per il semplice motivo che i giovani che delinquono sono numericamente inferiori ai più anziani. Il popolo giapponese si troverà tra un paio di generazioni con pochi giovani in età da lavoro e un numero di over 65 da mantenere che continua a crescere. Il ministero della Salute di Tokyo (2013) riportava che il numero di bambini nati nel 2013 è 1.029.800, ovvero 7.431 bambini nati in meno rispetto all’anno precedente. Il tasso di fecondità (numero di figli per donna) cresce a percentuali da errore statistico, in sostanza è piatto, e non può invertire la contrazione della natalità. Il numero di matrimoni è inferiore al Dopoguerra. Il Giappone svetta sui titoli di giornale per i robot che saranno capaci di curare gli anziani, per i postini che fanno sia da porta lettere sia da assistenti domiciliari ma il governo nipponico non ha ancora trovato una soluzione definitiva alla penuria di nuove vite. Il premier Shinzo Abe dice di avere un piano di lungo termine per quanto sia stato avaro di dettagli. A settembre ha detto che il suo obiettivo è aumentare il tasso di natalità da 1,4 a 1,8 figli per donna (comunque sotto il tasso di sostituzione) per stabilizzare la popolazione giapponese a 100 milioni in 50 anni dai 127 milioni odierni. Abe conta anche di aumentare il numero di donne lavoratrici, che aiuterebbe ad accrescere la forza lavoro. Sull’immigrazione, pur avendo di recente avanzato aperture verso una politica migratoria meno restrittiva, ha evitato di commentare. Older for longer.
Nigeria, una promessa e un rischio narcotico
La Nigeria è il paese a più rapida crescita e quello più popoloso del continente africano; il settimo a livello mondiale con 174 milioni di abitanti. A lungo si è discusso del sorpasso della Nigeria sul Sudafrica, altro colosso. Si pensava dovesse avvenire nel 2015-’30 ma, in ragione di un aggiustamento delle statistiche macroeconomiche che dà il giusto peso al settore delle telecomunicazioni, già nel 2013 il sorpasso è diventato realtà (510 miliardi di dollari di pil contro 370). Il 13,6 per cento del pil del paese deriva dal settore petrolifero (dati Banca mondiale 2011-’15) ma con i prezzi del greggio ai minimi dal 2009 questo può provocare problemi al bilancio pubblico. Il reddito pro capite, poi, è ancora tre volte più alto in Sud Africa. Nel duello, è la demografia a dare di nuovo ragione alla crescita nigeriana con una media di nascite di 39,23 bambini ogni mille abitanti nel 2012 – sei per donna – in seguito scese a 38,78 (2013) e 38,03 (2014).
Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione della Nigeria supererà quella degli Stati Uniti entro il 2050. Le stime dicono che la popolazione mondiale, di 7,2 miliardi di persone, nel 2025 arriverà a 8,1 miliardi. Entro la metà di questo secolo arriverà a 9,5 miliardi e a 11 nel 2100. Più della metà della crescita prevista si attende dall’Africa dove la popolazione raddoppierà da 1,1 miliardi a 2,4, dicono le Nazioni unite.
Tuttavia l’aspettativa di vita alla nascita in Nigeria è di 52 anni, dieci anni inferiore per esempio rispetto al Ghana. Milioni di nigeriani vivono al di sotto della soglia di povertà, con stime che possono andare da un minimo di 30 a un massimo del 90 per cento, mentre il dato che si ricava spesso dalle fonti semi-ufficiali si aggira attorno al 40-50 per cento, dice un rapporto Ispi per il ministero degli Affari esteri. Nonostante la crescita reale e potenziale sia elevata e ci sia l’interesse generalizzato di investitori internazionali a scommettere sul paese, altri fattori costringono a maggiore cautela.
Tra le altre cose, la Nigeria è anche un varco del traffico della droga prodotta in Sudamerica e diretta in nord Africa ed Europa, oltre che un centro di produzione dove le tossicodipendenze sono un flagello. Da un lato, il fenomeno è esacerbato dal fatto che le mafie e i trafficanti provvedono a soddisfare alcuni bisogni di welfare della popolazione che lo stato non soddisfa. Dall’altro, il benessere prodotto dalle attività illecite che si manifesta nello stile di vita di chi ne è coinvolto induce i soggetti più poveri a entrare nel business sia come produttori o coltivatori – in caso della cannabis, da decenni fonte di reddito per i piccoli agricoltori – sia come corrieri o intermediari, in caso di eroina e cocaina. L’ingresso nel mercato della droga di parte della popolazione giovane e attiva e la tossicodipendenza tra le fasce povere ha costi non facilmente quantificabili ma che di certo contribuiscono a indebolire il tessuto sociale e, di conseguenza, quello economico sottraendo forza lavoro alle attività produttive tradizionali e contribuendo a ingrossare le file dei disoccupati.
Nonostante l’economia nigeriana sia dunque in crescita e i settori produttivi diversi da quello petrolifero siano in espansione, il fardello per l’economia derivante dal traffico e dal consumo di droghe rischia di aggravarsi per via di queste recenti tendenze ma le autorità non sembrano agire con sufficiente fermezza per ridurre il rischio.
Italia, nazione di “mantenuti” (ma da chi?)
L’Italia ha una popolazione di 59,8 milioni di abitanti con poco meno di mezzo milione di nati all’anno, un numero superiore di decessi, e un’età media di 44,4 anni. Secondo l’Istat, il rapporto relativo tra nascite e morti presentava un saldo negativo di quasi 100 unità nel 2014, un livello mai raggiunto dal 1917-’18 (quando era terminata la Grande Guerra), con 12 mila nati in meno rispetto al 2013. Il gap si sta allargando perché il quoziente di natalità è di 8,2 nascite ogni mille abitanti. La “piramide dell’età” si sta rovesciando: la popolazione invecchia costantemente con una quota di 65enni che rappresenta il 22 per cento della popolazione; simile a Germania (23,1) e Giappone (26,4). Tra cinquant’anni è facile immaginare che ci saranno 1,2 milioni di ultra 95enni, che costeranno circa 7 miliardi all’anno ove ricevessero un ipotetico assegno da 500 euro (senza contare le spese per il Sistema sanitario). L’immigrazione può rappresentare un antidoto alla denatalità conclamata, come si è sentito ripetere spesso sulla scorta della recente crisi dei rifugiati in Europa? L’idea è contestata da alcuni esperti perché, soprattutto, non aggredisce il problema del calo delle nascite alla radice: si fanno sempre meno figli, alla lunga anche nelle comunità di nuovi arrivati che si integrano. E mentre la popolazione straniera in Italia è passata da 500 mila persone all’inizio degli anni 90 ai circa 6 milioni di oggi (stimando pure i clandestini), quel problema di fondo rimane in piedi. Sostiene per esempio Gian Carlo Blangiardo, professore dell’Università Bicocca di Milano, che oggi arrivano immigrati che saranno presto anziani anch’essi e avranno bisogno di cure. Dunque se – in via del tutto ipotetica – si acquisissero persone in gran parte istruite, come vuol fare la Germania, ma difficilmente può fare l’Italia, si risparmierebbe sui costi di formazione ma più in là nel tempo il welfare soffrirebbe comunque. Ed è già provato: più di un quarto del pil va in pensioni, dice l’Ocse. Tra cinquant’anni avremo meno nipoti che nonni e meno pronipoti che bisnonni. Ovvero tante teste da mantenere. Sì, ma come?