Pensionare l'età pensionabile
Roma. “Non per cassa, ma per equità”, s’intitola il documento presentato la scorsa settimana dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha riportato sulle prime pagine dei giornali e nelle aperture dei telegiornali italiani il dibattito sulle pensioni. Per ragioni di equità, e non di finanza pubblica – sostiene il professore della Bocconi – occorre ipotizzare forme di incentivazione per il pensionamento anticipato e un assegno mensile per gli over 55 senza lavoro. Tralasciando per un momento l’anomalia di un presidente dell’Inps che avanza proposte scartate pubblicamente dal governo che lo ha nominato da pochi mesi alla guida dell’istituto, in tanti concordano sul fatto che i numeri presentati da Boeri sono solidi, e che le ipotesi formulate sono sapientemente trasposte in norme pronte all’uso. Su queste colonne, non in solitaria, si è provato a sottolineare però un aspetto critico del documento dell’Inps: nello schema di riforma dell’assistenza e della previdenza proposto da Boeri, gli attuali lavoratori più giovani sono costretti essenzialmente al ruolo di spettatori. Al massimo beneficiari dei “processi di ristrutturazione delle imprese e del pubblico impiego” che sarebbero incentivati da una “transizione più flessibile dal lavoro al non lavoro”. Per ragioni di cassa (che è inutile negare) e di equità (intergenerazionale, non solo intragenerazionale), sarebbe meglio discutere un’ipotesi più radicale: pensionare l’età pensionabile.
“Retiring retirement”, cioè mandare in pensione l’età pensionabile obbligatoria, non è l’idea balzana di qualche libertario eccentrico. E’ il titolo di una copertina della rivista scientifica Nature del maggio 2008, per dire. E’ il modo in cui, soprattutto nei paesi anglosassoni di antica industrializzazione, si stanno affrontando problemi di “cassa” sollevati dal binomio invecchiamento demografico-sostenibilità della previdenza, e anche di “equità” tra lavoratori di diverse età. Alla fine del 2011, nel Regno Unito è stato superato definitivamente, per legge, l’obbligo di pensionamento a 65 anni. “La nuova legislazione impedisce ai datori di lavoro di mandare in pensione obbligatoriamente i dipendenti appena compiono 65 anni d’età – scriveva la Bbc – Se i datori di lavoro vorranno comunque rendere operativo il pensionamento, la loro decisione dovrà essere giustificata obiettivamente, ma i lavoratori comunque non saranno costretti ad abbandonare il loro impiego sulla sola base del limite d’età”.
Un cambiamento non da poco, foss’anche solo di ordine culturale. In Italia la situazione è quasi opposta. Una volta approvata la riforma Fornero delle pensioni del 2011 che metteva fine a una serie di mezze riforme quasi sempre annunciate per poi avere effetto soltanto sui posteri, non abbiamo mai smesso di parlare di “riforma della riforma”. Nel nostro paese un terzo della spesa pubblica annuale (250 miliardi su 800) è “sequestrato” dal pagamento delle pensioni, praticamente la voce unica del welfare nazionale, e il tasso di occupazione – cioè la percentuale di persone che lavorano sul totale di quelle che potrebbero farlo – è il più basso d’Europa, pari al 55,6 per cento, 8,5 punti percentuali più basso della media Ue. Eppure non c’è governo che non pensi di legiferare per avvicinare l’agognata pensione. E’ successo con gli “esodati” da salvaguardare e sta risuccedendo oggi con la volontà di creare un’opzione per andare in pensione prima, a costo di mettere le mani nelle tasche di chi in pensione c’è già andato. La pensione come traguardo da assicurare – è il caso di dirlo – a tutti i costi. Mentre anche negli Stati Uniti l’età pensionabile obbligatoria è stata abolita gradualmente a partire dalla fine degli anni 70, e poi definitivamente nel 1986. E’ stato un modo previdente e non coercitivo, perché la possibilità di andare in pensione dopo una certa età e storia contributiva ovviamente rimane, per affrontare in tempo l’uscita dei baby-boomers dal mercato del lavoro.
Questione di cassa, dunque, ma anche di equità. “Employment equality regulations 2011”, si chiama non a caso il testo di legge inglese sull’abolizione dell’età pensionabile. In un lungo saggio apparso nel 2004, la Harvard Business Review osservava infatti che “l’ambiente di lavoro è diventato sempre più alienante per chiunque abbia superato i 50 anni”. E’ evidente nelle procedure di selezione dei curriculum vitae, o delle attività di formazione esistenti e più spesso mancanti. Nell’èra del politically correct imperante, però, in Italia nessuno si occupa di questa discriminazione anagrafica. E questo nonostante una (rara) ricerca Isfol del 2006, svolta in collaborazione con il ministero del Lavoro e il dipartimento di Scienze demografiche dell’Università Sapienza di Roma, avesse rivelato che nel nostro paese sette lavoratori su 10 tra i 60 e i 64 anni d’età si ritenevano in grado di lavorare anche dopo i 65 anni, mentre il desiderio di andare in pensione era molto più intenso nelle classi demografiche giovanili. Il perché di questa inconsueta disattenzione per una possibile discriminazione nei confronti di tanti o pochi volenterosi, è quasi ovvio: per come è impostato l’attuale dibattito pubblico, lavorare stanca, per definizione, e tutto ciò che può evitare tale vessazione diventa un premio. Da anticipare, magari, a discrezione di un legislatore benevolo.
[**Video_box_2**]Tale atteggiamento conviene almeno da un punto di vista economico? No. Perlomeno non in tutti i settori. Se nessuno si sogna di incentivare i lavoratori a svolgere mansioni usuranti o solo faticose oltre certi limiti di età, è pur vero che attività meramente intellettuali si diffondono sempre più nell’economia terziarizzata. Negli Stati Uniti, per esempio, è stata dimostrata la notevole produttività di professori e ricercatori più in là con gli anni: i fondi federali per la ricerca attribuiti agli over 65 si sono moltiplicati tra il 1998 e il 2014, passando dal 4,8 al 12 per cento del totale. Una ricerca del National bureau of Economic research ha svelato inoltre che privare alcuni settori di dipendenti con maggiore esperienza e produttività riduce allo stesso tempo le chance di occupazione dei giovani. D’altronde in Germania, dove l’età pensionabile si è avvicinata prima che altrove ai 67 anni, la disoccupazione giovanile è la più bassa del continente. Altro che staffette generazionali con l’incentivo pubblico.
Quando l’inglese Oliver Smithies, nel 2007, vinse il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia, aveva 82 anni. Nature, un anno dopo, notò che “se Smithies fosse rimasto in Europa, invece di trasferirsi in America nel 1953, sarebbe stato costretto al pensionamento nel 1990. Invece, all’Università della Carolina del Nord, lavora fianco a fianco con scienziati più giovani, ottiene finanziamenti ed emana un entusiasmo giovanile”. La “ragione fondamentale” di una produttività così diffusa, non solo nell’accademia – scrisse la rivista scientifica – è che “a differenza dell’Europa, negli Stati Uniti tutti hanno il diritto, per legge, di essere considerati ai fini lavorativi. Indipendentemente dall’età”. In Italia soltanto la pensione è un diritto. Finché la cassa lo consentirà, ben inteso.