Schmidt, leader che per l'Europa voleva una Germania “esempio” e non “modello”
Roma. La morte di Helmut Schmidt, alla ragguardevole età di 96 anni, fa venire una mesta nostalgia per quel tempo in cui la classe dirigente del Vecchio continente, in alleanza dialettica con quella americana, chiudeva con successo la Guerra fredda e costruiva la sua utopia politica: un’area di pace e di benessere dall’Atlantico agli Urali. Certo era un’altra Europa e un’altra Germania, divisa, più piccola, ed era un’altra socialdemocrazia, che viaggiava ancora sull’onda di Bad Godesberg, il distretto di Bonn lungo il fiume Reno dove nel 1959 era stato mandato in soffitta Karl Marx. Tuttavia chi oggi lamenta una crisi nella quale l’Europa (e solo lei) si è crogiolata per sette lunghi anni, impreca per l’onda di profughi o maledice i mandarini di Bruxelles, dimostra di non avere memoria storica.
Schmidt era un tedesco che aveva fatto la guerra e solo nel 1946 aveva aderito alla socialdemocrazia, a differenza da Willy Brandt, il suo predecessore alla Cancelleria, anti nazista della prim’ora. Dunque, Schmidt era un tedesco del Wirtschaftwunder, il miracolo economico, della occidentalizzazione ed europeizzazione tutt’altro che scontate per un paese vissuto con la sindrome della terra di mezzo, divisa tra est e ovest. Del resto, la città libera di Amburgo dove Schmidt era nato, ricca, mercantile e intellettuale, era sempre stata occidentale fino in fondo.
Divenuto cancelliere nel 1974 quando Brandt si dimise perché il suo segretario Günter Guillaume faceva la spia per i comunisti della Ddr, Schmidt prese le redini nel bel mezzo della crisi petrolifera che aveva scosso il mondo industrializzato. La Germania federale era percorsa dal terrore della Rote Armee Fraktion, mentre le Brigate rosse stavano mettendo a ferro e fuoco l’Italia. Intanto, l’Unione sovietica di Leonid Breznev puntava i suoi missili SS20 verso l’Europa. Una delle più difficili scelte del Cancelliere fu proprio chiedere nel 1979 di dispiegare i Pershing e Cruise sul territorio tedesco e su quello italiano. La risposta alla crisi economica fu un accordo di cambio tra le principale monete europee (lo Sme) e l’istituzione di un club dei paesi industrializzati, primo nucleo di un kantiano governo mondiale: il G7. Un aiuto fondamentale gli venne da Valéry Giscard d’Estaing eletto presidente francese anch’egli nel 1974. Tra i due si strinse un legame personale e si cominciò a parlare di “motore franco-tedesco”; un rapporto, proseguito con François Mitterrand e Helmut Kohl, preferenziale, ma non egemonico, fatto di mediazioni con l’Inghilterra all’eterna ricerca di eccezioni e con la malmostosa Italia che gli ultimi epigoni della classe dirigente democristiana tenevano tenacemente abbarbicata alle Alpi per paura che annegasse tra i flutti del Mediterraneo.
[**Video_box_2**]Il testamento intellettuale di Schmidt si trova nei messaggi inviati in questi anni di crisi del progetto europeista. “La posizione centrale che la Germania occupa dal punto di vista geopolitico, l'infausto ruolo che ha assunto nel corso della storia europea fino alla metà del XX secolo, i risultati attuali, impongono a ogni governo tedesco di acquisire la capacità di immedesimarsi negli interessi dei partner europei e di mostrarsi pronti a offrire aiuto”, ha scritto nel 2012 mentre infuriava la battaglia dello spread. L’ex cancelliere ricordava di non essere stato in grado di rispondere a chi gli chiedeva quando la Germania sarebbe diventata un paese normale, perché convinto che dovevano passare ancora molti anni. Ma una cosa raccomandava ad Angela Merkel come al birraio della sua Amburgo: “Non possiamo presentare l'ordinamento del nostro paese come un modello, ma solo come un esempio. Tutti insieme abbiamo la responsabilità per quello che la Germania fa e non fa, e per gli effetti futuri della sua condotta sull'Europa”. Danke schön, Dr. Schmidt.