Perché su welfare e migranti l'Europa deve ascoltare Cameron
Nei Simpson c’è una scenetta illuminante in tema di immigrazione e welfare. Nell’episodio “Tanto Apu per niente”, quando l’immigrato indiano Apu ottiene la cittadinanza americana chiede subito – in forma scherzosa – dove si trovi l’Ufficio assistenza sociale. Non sono passati dieci minuti da quando ha un passaporto americano ed egli già immagina di accedere alle risorse di tutti, ottenendo aiuto e sostegno. Al di là del tono umoristico quel passaggio aiuta a capire la mossa compiuta nelle scorse ore da David Cameron, che nel dettare le sue condizioni per l’avvio di un negoziato tra Regno Unito e Unione europea ha immaginato la possibilità di avere un sistema di protezione sociale che distingua tra cittadini britannici e no. Il premier inglese ha detto di voler “ridurre l’effetto richiamo che il nostro sistema di welfare può esercitare in Europa”. E ha aggiunto: “Abbiamo proposto che le persone che arrivano in Gran Bretagna dall’Ue devono vivere qui e versare contributi per quattro anni prima che possano chiedere sussidi o accedere alle case popolari”.
Insomma, nell’America dei Simpson come nella Gran Bretagna di Cameron (come pure da noi, a dire il vero) esiste una forte resistenza dinanzi all’arrivo di immigrati e una delle ragioni è proprio il timore che quanti vengono da lontano non si trasferiscano per lavorare, ma per usufruire di un welfare faticosamente costruito da altri e nel corso del tempo. Per giunta, a tutte le latitudini, sull’equazione “immigrati = parassiti” campano i movimenti populisti di ogni colore ed esattamente per questo è tutt’altro che da bocciare una politica di welfare restrittiva, che non offra alcun argomento a chi è sempre pronto a usare le armi della demagogia. Deve insomma risultare chiaro che quanti immigrano lo fanno per cercare un lavoro, e non per vivere alle spalle di altri.
Al di là delle intenzioni del leader conservatore, la proposta va presa sul serio perché solo in questa maniera è possibile sperare di mantenere aperte le porte a nuovi arrivi. La stessa storia americana ci dice come l’immigrazione fosse qualcosa di assai diverso prima della costruzione di un vasto sistema assistenziale e come proprio l’espansione di uno stato che elargisce aiuti abbia incrinato il modello di un’America quale terra di opportunità, pronta ad accogliere e integrare. Eppure oggi a Bruxelles si fa molta fatica a prendere in considerazione la richiesta di Cameron. Sullo sfondo c’è un conflitto di visioni in merito all’Europa di domani: che a Londra si vuole flessibile e plurale, mentre sul continente s’intende monolitica. Ma vi sono pure questioni giuridiche più specifiche, che vanno in qualche modo superate. Quando vuole riservare taluni benefici del proprio welfare solo ai britannici, implicitamente Cameron sta negando che esista – al di là della retorica – una cittadinanza europea.
[**Video_box_2**]A Londra sono davvero cittadini quanti guardano a Elisabetta II come alla loro regina, mentre gli altri rimangono stranieri. La presa di posizione di Cameron prende allora di petto una consolidata giurisprudenza europea, ma la cosa non deve scandalizzare. Chi si straccia le vesti forse non ha capito che il Regno Unito è pronto ad andarsene. Nessuno sa quale potrà essere il risultato del referendum del 2017, ma una vittoria degli euroscettici non è da escludere. Per giunta le condizioni poste da Cameron sono state considerate troppo moderate da buona parte del partito conservatore e dai commentatori politici della stampa vicina al suo elettorato. Se quindi a Bruxelles non si vorrà entrare nel merito delle (legittime) richieste britanniche, l’ipotesi della prima secessione dalla Ue prenderà sempre più corpo. E non è affatto detto che, per quanti auspicano un’Europa più liberale e meno burocratica, questa sia la soluzione peggiore.