Come si dice “austerity” in arabo? Stati rentier in subbuglio

Eugenio Dacrema
L’Arabia Saudita è su un crinale critico: il calo delle rendite petrolifere restringe il bilancio pubblico e motiva l’urgenza di approntare misure di rientro che limitino le munifiche politiche assistenzialiste, pilastro della politica economica della dinastia Saud.

L’Arabia Saudita è su un crinale critico: il calo delle rendite petrolifere restringe il bilancio pubblico e motiva l’urgenza di approntare misure di rientro che limitino le munifiche politiche assistenzialiste, pilastro della politica economica della dinastia Saud. Ma è possibile che si vada anche oltre semplici misure di austerità. Riad potrebbe infatti presto trovarsi a gestire una epocale metamorfosi: quella da stato rentier a stato collettore d’imposte. Il deficit del regno per quest’anno ammonta infatti a 130 miliardi di dollari. E’ l’effetto più evidente del dimezzamento dei prezzi petroliferi, passati in meno di un anno da oltre 100 dollari al barile a oscillare intorno ai 50. Una strategia voluta e sostenuta dall’Arabia Saudita per danneggiare i produttori extra-Opec che si stavano affacciando sempre più aggressivi sul mercato.

 

Ma qualcosa è andato storto. In America i produttori di shale gas – bersagli primari della strategia saudita – soffrono ma per ora non crollano. La strategia, però, non può essere interrotta ora, dichiarano gli ufficiali sauditi: bisogna proseguire finché gli obiettivi saranno raggiunti e i competitor emergenti annientati; anche a costo di mettere a repentaglio la sussistenza dell’Opec all’interno del quale sta montando il malcontento dei partner per l’egocentrico uso del cartello da parte dei sauditi. Ma 130 miliardi sono tanti, una cifra appesantita dalla costosa avventura militare in Yemen, entrata in uno stallo che rischia di costare caro. La cifra spaventerebbe i ministri delle Finanze di tutto il mondo, ma fino a qualche settimana fa sembrava lasciare indifferenti i sauditi. Nei decenni precedenti il regno arabo aveva infatti provveduto ad accumulare enormi riserve di valuta e fondi sovrani per non farsi cogliere impreparato in momenti come questo. Ma qualcosa sta cambiando. Le riserve di valuta sono passate da 747 miliardi alla fine del 2014 a 647 a settembre 2015. Quasi 100 miliardi in meno di un anno, un tasso di caduta che rischia di allontanare gli investimenti e minare la stabilità economica e politica del regno. Le cose non vanno molto meglio se ci si sposta di qualche chilometro negli Emirati Arabi Uniti, dove Moody’s prevede un deficit statale più contenuto, intorno al 2,9 per cento del pil, ma dove nel 2015 si sono registrate migliaia di bancarotte di piccole imprese. Una moria che mette a dura prova il sistema bancario emiratino, esposto per oltre 3 miliardi di dollari.

 

[**Video_box_2**]E naturalmente le cose non vanno meglio tra i membri più poveri del Golfo: il deficit dell’Oman, un piccolo esportatore se comparato ad Arabia Saudita ed Eau, potrebbe toccare le due cifre già quest’anno, con una contrazione delle entrate statali del 40 per cento. Gli emiri del petrolio della penisola arabica si trovano quindi in una situazione per loro piuttosto inedita: hanno bisogno di soldi. E i primi metodi che hanno trovato per procurarseli sono quelli più tradizionali: risparmiare e indebitarsi. Durante l’estate Arabia Saudita e Oman hanno iniziato a vendere titoli di stato nei propri mercati interni e Riad dovrebbe tornare a gennaio sul mercato internazionale dei bond dopo 15 anni di assenza. A luglio gli Emirati hanno deciso di tagliare i sussidi sui carburanti; mossa inedita che potrebbe essere presto imitata anche dai sauditi. Si tratta di una misura con una valenza politica: il sostegno senza limiti alla spesa sui carburanti è stato uno dei capisaldi del curioso patto sociale che tiene in piedi le monarchie petrolifere. Ma gli Emirati potrebbero andare anche oltre. Da alcuni mesi si parla infatti dell’introduzione di imposizione fiscale sui consumi: un’Iva leggera che inizialmente non dovrebbe andare oltre il 5 per cento. Ma una misura che, seppur indirettamente, farebbe pagare per la prima volta le tasse ai cittadini del Golfo. Un rentier state che chiede le tasse è come un santo che chiede la grazia. Ma in tempi di prezzi a 50 dollari al barile tutto può succedere.

 

Eugenio Dacrema è ricercatore all'Università di Trento

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