Il reddito minimo, con la nostra Pa inefficiente, sarà un flop
Il reddito minimo di questi tempi si porta molto bene. Ultimo in ordine di tempo a imbracciare l’idea è stato il governatore della Puglia, Michele Emiliano, con l’approvazione di un “reddito di dignità” (se ne è parlato giovedì sul Foglio). Intendiamoci: come noto, siamo gli unici insieme alla Grecia a non averlo. Dunque è buona cosa che se ne parli. Specie in un paese in cui le misure dedicate ai poveri sono poche, frammentate e di scarsa efficacia. La tentazione è però quella di ritenere questa misura provvidenziale “a prescindere”. Come se ci fossero soldi sufficienti per fare tutto quel che serve. Ma soprattutto, evitando di chiedersi se la nostra Pubblica amministrazione sia effettivamente in grado di gestirne le (molte) complessità.
Conosciamo bene la lunga storia di inefficienza della nostra Pubblica amministrazione. E nello specifico sappiamo già molte cose. Che però sembrano destinate a restare sullo sfondo. Un reddito minimo di inserimento fu già sperimentato sul finire degli anni Novanta. E riproposto in una serie di leggi regionali all’inizio del nuovo millennio. Il tutto con esiti non proprio brillanti.
La sperimentazione coinvolse complessivamente 307 comuni. La valutazione che fu fatta al termine fu però negativa. Tra i tanti problemi riscontrati, isoliamo i più rilevanti: inefficacia nella selezione degli aventi diritto, a causa di valori di soglia Isee troppo bassi; eccessiva discrezionalità lasciata ai comuni sul fronte della valutazione patrimoniale e reddituale; impreparazione da parte dei comuni nella gestione di uno strumento molto complesso. Il risultato finale fu una capacità di risposta a macchia di leopardo. Come dire: l’universalismo della misura si era trasformato in un particolarismo di fatto. Pochi comuni se la cavarono. Il grosso, invece, non raggiunse i risultati attesi.
Certo, sono passati quindici anni. Si può dunque pensare che nel frattempo le cose siano cambiate. C’è però un’esperienza recente che non sembra lasciare molto tranquilli. Si tratta della sperimentazione della “Nuova Social card”, tarata sui “poveri estremi” e testata tra il 2013 e il 2015 in 12 grandi città al costo di 50 milioni di euro. La misura prevede una gestione interamente demandata ai comuni, con eventuale presenza dei Centri per l’impiego e di soggetti del terzo settore nella fase di accompagnamento per la parte di inclusione sociale e lavorativa della persona. Dopo una lunghissima fase preparatoria, i risultati finali sono stati ancora una volta inferiori alle attese. Sempre per problemi di natura burocratico-amministrativa. Si è riconfermata la difficoltà a intercettare i potenziali aventi diritto, la generale lentezza burocratica delle procedure, la mancanza di finanziamento sul fronte dei servizi di riattivazione del soggetto. Tutti elementi che rendono monco e tendenzialmente “passivizzante” un intervento che invece, nelle sue premesse, avrebbe dovuto tendere alla rimessa in pista dei soggetti coinvolti.
[**Video_box_2**]Insomma, il sospetto è che con “questa” Pubblica amministrazione risulta molto difficile pensare a una misura contro la povertà che abbia qualche possibilità di successo. La prova a contrario di questo assunto è che l’unica esperienza funzionante nel nostro paese si trova in una regione a Statuto speciale. A Trento infatti da molti anni funziona un reddito di garanzia che ha dimostrato alta efficienza gestionale e buona capacità di presa in carico della persona, evitando ogni trappola assistenzialista. Lassù, a due passi dall’Austria, non ci sono solo tanti soldi. C’è anche una Pubblica amministrazione che funziona. E questo fa la differenza.
Luca Pesenti è docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore
L'autore è co-curatore, con Giancarlo Rovati, del volume “Food poverty, food bank” (Vita e Pensiero, 2015).