Ci vuole lo spirito rottamatore del Jobs Act

Piercamillo Falasca
L’orizzonte internazionale si è fatto più cupo. Liberare settori e mercati è una valida difesa. Il ddl Concorrenza basta? Cos’altro serve? Girotondo di idee

Rottamare e liberalizzare dovrebbero essere sinonimi, politicamente parlando. Liberalizzare significa aprire il mercato agli outsider, permettere loro di concorrere ad armi pari in quei settori in cui finora troppi vincoli e regole hanno fatto la fortuna di insider, corporazioni e monopolisti. Come il Jobs Act è stato, nell’ambito del lavoro subordinato, l’abbattimento di un muro regolatorio e culturale tra precari e garantiti, così la liberalizzazione delle professioni, del commercio, dei trasporti o dei servizi pubblici può essere la leva per innescare più innovazione, merito e investimenti nell’economia e nella società italiana. Se non è rottamazione questa, cos’è? L’ultimo decennio può essere raccontato come un continuo tentativo sciupato di liberalizzare profondamente l’economia italiana: dalle lenzuolate di Bersani all’ultimo ddl concorrenza, passando per il “Cresci Italia” dei tempi montiani, ogni provvedimento legislativo pro-concorrenza è nato cavallo ed è finito asino, perdendo per strada buona parte delle misure messe in cantiere. Cosa è mancato? A volte, il coraggio di assumere una decisione e di portarla in fondo, nell’interesse generale e nonostante le opposizioni particolari, politiche e di categoria. Due, la creatività con cui immaginare soluzioni compensative a vantaggio di quei settori a cui vuoi imporre la concorrenza: l’esempio classico è la proposta dell’Istituto Bruno Leoni di produrre più concorrenza nel settore dei taxi regalando ad ogni tassista una seconda licenza, con l’obbligo di metterla in strada. Coraggio e creatività, doti che oggettivamente non difettano a Matteo Renzi.
 

 

Piercamillo Falasca, direttore editoriale della rivista Strade

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