Siamo meno indigenti (dicono i numeri) ma sempre lagnoni (sui tg)
Roma. Sono il 28,3 per cento gli italiani “a rischio povertà o esclusione sociale” nel 2014. Al tempo stesso nei primi sei mesi 2015 una percentuale quasi identica di famiglie, il 24 per cento, ha rinunciato a presentare il documento sostitutivo unico (Dsu), che serve a chiedere l’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente, a sua volta indispensabile per entrare nelle graduatorie dei sussidi sociali: sconti su rette scolastiche e universitarie, iscrizione agli asili, assegnazione di alloggi popolari, abbonamenti agevolati ai trasporti pubblici. Due realtà che evidentemente si contraddicono.
La prima è frutto delle elaborazioni annuali dell’Istat, basate su rilevazioni a campione secondo tipologie familiari e lavorative che l’istituto stesso ha ampiamente collaudato.
La seconda sono invece dati reali forniti dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Ovvero: la statistica contraddice la sociologia, benché il luogo deputato alla statistica sia proprio l’Istat.
Va da sé che i tg e la gran parte dei quotidiani abbiano, secondo rituale, enfatizzato e semplificato i dati in negativo. “Un quarto delle famiglie vive nella povertà, il 12 per cento non si può permettere di mangiare carne o pesce più di due volte la settimana, allarme al Sud!”: questo il messaggio sui media che – chissà perché – si crogiolano nell'immagine di un’Italia povera, affamata, socialmente in perenne emergenza. La stessa immagine gettonata nei talk show. Eppure i medesimi dati Istat si prestavano a una lettura un po’ più accurata, se non ci fosse limitati alle prime righe. Le persone definite “in grave deprivazione” scendono all’11,6 per cento, un calo costante dal 2011.
Si riducono anche quelle che “non possono permettersi un pasto proteico ogni due giorni” (meno 1,3 per cento in un anno), “una settimana di ferie” (meno 1,5), “una spesa imprevista di 800 euro”. Anche la più ampia fascia del rischio povertà-esclusione si riduce al Sud, dal 48 al 46,4 per cento, e è sì superiore su scala nazionale, ma inferiore nel Nord (17,3) e nel Centro Italia. Ne deriva che il vero ritardo è nel Meridione, confermando il mood politico-mediatico prevalente. Ma ecco gli altri dati, quelli dell’Isee. Per il quale da quest'anno il governo ha (meritoriamente) riformato i criteri, passando dalla semplice autocertificazione ai Caf o all’Inps al controllo sui libretti e depositi bancari, e attribuendo un peso diverso al patrimonio finanziario (la franchigia è scesa da 15.500 a 10 mila euro) e immobiliare.
[**Video_box_2**]Risultato: fino a un anno fa il 73,7 per cento delle famiglie che chiedevano sconti pubblici dichiarava di non avere un euro in banca, spesso neppure un conto corrente; oggi sono il 18,9. Al tempo stesso il valore medio dei risparmi dichiarati sale da 4.074 a 9.038 euro. Pare dunque che un controllo un po’ meno colabrodo sia bastato a convincere, in sei mesi, circa 700 mila famiglie, appunto il 24 per cento del totale, a rinunciare alla dichiarazione. Con picchi in Campania (meno 45,6 per cento), Calabria (meno 42,1), Puglia (meno 38,4), Sicilia (meno 37,5). Con variazioni minime in Liguria, Sardegna, Emilia-Romagna, Toscana e Marche. E anche con una situazione opposta, cioè richiedenti in aumento, in Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Basilicata. Alla fine su base annua il governo prevede che il 10,1 per cento tra famiglie e single potrà avvalersi dell’Isee, rispetto al 13,9 del passato. E che a fronte di un 45,3 per cento che avranno un sussidio meno generoso ce ne sarà un 35 che invece riceverà di più.
C'è anche chi – per esempio la consulta dei Caf – attribuisce la “colpa” dei cali ai ritardi dei comuni, oppure a questioni in bilico tipo i sussidi ai disabili, che il governo ha inserito tra le voci da indicare incontrando la bocciatura del Tar del Lazio. In generale però emerge una gestione un po’ meno allegra dei sussidi, sempre contrassegnata da non pochi scandali, tipo il 63 per cento di dichiarazioni fasulle all’Università di Roma o i falsi invalidi scoperti quotidianamente. Il che ripropone la domanda se l’Italia sia più quella che emerge dall’Istat con i suoi rispettabili criteri sociologici, un’Italia a sua volta rappresentata dai media con un'immagine derelitta e piagnona; oppure quella che improvvisamente scopre di avere un po’ di risparmi in banca, una casa, cose che se non risolvono i problemi, magari aiutano a mettere in tavola un piatto proteico.
Renzo Rosati