L'occidente canuto fa poca impresa
Roma. Abercrombie & Fitch, la casa d’abbigliamento casual “All-American” sbarcata nel 2009 anche in Italia, le sta provando tutte per risollevare vendite e quotazione in Borsa: via il logo cucito su ogni capo, via le modelle troppo ammiccanti dalle pubblicità, via i modelli troppo scolpiti, eccetera. Ma il problema “non sono i jeans strappati o i testimonial troppo magri”, ha detto Michael Green, analista e fondatore di Ice Farm Advisors; il punto, secondo lui, è che nei mercati occidentali di riferimento si assottiglia il numero dei “consumatori tipo” di Abercrombie, scompaiono cioè gli adolescenti.
E’ partendo da aneddoti simili e da robuste analisi statistiche che il Wall Street Journal ha pubblicato in prima pagina, per tutta la settimana, un’inchiesta a puntate. “La nuova bomba demografica: troppe poche persone”, è il titolo del primo reportage firmato da Greg Ip. Per il quotidiano finanziario americano, è proprio nella demografia che occorre cercare le cause profonde di una ripresa economica che è arrivata prima in America e poi nel resto del mondo sviluppato, ma che “continua a deludere”. Del 2008 tutti ricordano il crac della banca d’affari Lehman Brothers; in pochi hanno notato che nello stesso anno iniziavano ad andare in pensione i baby boomers, nati dal 1945 al 1964 e con tassi di fertilità molto più contenuti dei loro genitori. E l’America tra i paesi industrializzati non è nemmeno quello che si trova in condizioni peggiori, demograficamente parlando. La popolazione in età lavorativa, compresa tra i 15 e i 64 anni, crescerà ancora del 10 per cento fino al 2050; tuttavia passerà dal 66 per cento della popolazione totale al 60 per cento. In tutto il mondo, al 2050 la popolazione crescerà del 32 per cento, la forza lavoro (sempre tra i 15 e i 64 anni) soltanto del 26 per cento. In Italia e in Germania, a condizioni immutate, la forza lavoro si ridurrà quasi di un quarto (23 per cento) tra 35 anni; peggio di noi faranno solo Giappone (meno 28 per cento, e già da qualche anno in terreno negativo) e Corea del sud (meno 26). Una forza lavoro che si restringe contribuisce da subito a frenare la crescita economica, classicamente data dal numero dei lavoratori e dalla loro produttività. Sottopone poi a sforzi titanici i sistemi pensionistici e welfaristici in generale, come già dimostrato in Italia e in tutta Europa. Inoltre un mutamento degli equilibri numerici tra cittadini giovani e cittadini meno giovani – ovviamente a favore dei secondi – accresce la quantità di risparmi in giro per il pianeta, con eccessi che si possono riversare in altri paesi causando non pochi scompensi, tra tassi d’interesse che si abbassano e investimenti più rischiosi che spopolano (è già accaduto nelle relazioni tra Cina e America). Infine si rivoluzionano i consumi: oltre ad Abercrombie & Fitch che deve reinventarsi, c’è per esempio la spesa per i mutui immobiliari che crolla tra gli over 65, mentre il settore sanitario privato ha davanti a sé un boom assicurato.
Non è tutto bianco o nero, insomma, e le nostre società e istituzioni hanno mostrato già in passato sbalorditive capacità di adattamento. Ma c’è un altro nesso finora sottostimato che lega economia e demografia, dice al Foglio Edward Lazear, professore all’Università di Stanford e già capo economista di George W. Bush dal 2006 al 2009, ruolo che ricoprì subito dopo Ben Bernanke: “Avere troppi lavoratori anziani in proporzione al totale diminuisce l’imprenditorialità di una società”. Lazear lo ha dimostrato statisticamente in uno studio con i colleghi James Liang e Hui Wang, presentato anche in Italia in un seminario a porte chiuse della Fondazione Rodolfo Debenedetti. Elaborando le intuizioni del premio Nobel per l’Economia Gary Becker sul capitale umano, Lazear osserva che le capacità imprenditoriali dipendono da due fattori: la creatività, cioè la capacità di distaccarsi da prodotti e metodi produttivi del passato, e l’abilità di fare business che si acquisisce con l’esperienza sul campo. Cosa c’entra l’anagrafe? “I più giovani sono mediamente più creativi ed energici, i più anziani lo sono meno – sostiene Lazear – L’acquisizione di business skills invece progredisce con l’esperienza”. I due assunti marciano assieme. Se l’imprenditorialità dipendesse dalla sola età, essa calerebbe in maniera continua con l’invecchiamento, e gli individui più giovani sarebbero gli unici ad avviare attività imprenditoriali di successo. Ma così non è. “Quanti hanno ottenuto un master in business administration nell’università californiana di Stanford per poi diventare imprenditori, per esempio, hanno lavorato in media per cinque o dieci anni prima di avviare le proprie attività”.
L’Italia, più vicina al Giappone che all’America
[**Video_box_2**]Ciò che Lazear ha tentato di dimostrare è che “le persone in età lavorativa hanno minori probabilità di diventare imprenditori in un paese in cui la loro coorte tende a ridursi nel tempo. In una società che invecchia, c’è infatti una proporzione maggiore di lavoratori senior, il che rallenta la promozione di lavoratori junior”. Di conseguenza, “il capitale umano dei lavoratori più giovani si accumula più lentamente, perché questi devono attendere più a lungo per coprire quelle posizioni che comportano l’acquisizione di nuove capacità”. Uno dei fattori di successo della Silicon Valley, sui quali spesso si sorvola, è proprio questo: la possibilità che tanti giovani hanno avuto di ricoprire posizioni di responsabilità nelle aziende. Magari andando incontro a fallimenti, ma sicuramente acquisendo prima e con maggiore rapidità di tanti colleghi del mondo industrializzato le capacità imprenditoriali da accoppiare alle naturali doti di creatività ed energia. Incrociando i dati demografici con quelli raccolti dal Global entrepreneurship monitor (Gem), Lazear stima che una riduzione dell’età media di due anni, in un paese Ocse, faccia aumentare la formazione di nuove imprese del 10 per cento. L’Italia, “con un’età media della forza lavoro pari a 41,6 anni e un tasso d’imprenditorialità stimato all’1,7 per cento”, osserva, è più vicina al Giappone (età media di 43 anni e tasso d’imprenditorialità all’1,5 per cento) che agli Stati Uniti (età media di 36 anni e tasso d’imprenditorialità al 4,4 per cento).
Siamo dunque condannati alla “stagnazione secolare”, come l’ha chiamata l’ex segretario al Tesoro, Lawrence Summers? “No – replica Lazear – L’idea di Larry si fonda sull’ipotesi di carenza di domanda a livello macro. Non ci sono però dimostrazioni empiriche consolidate a sostegno di questa tesi, già sostenuta negli anni Trenta”. Come è possibile allora contrastare questa specifica conseguenza dell’invecchiamento demografico? “Abbassare l’età pensionabile non avrebbe senso, considerate l’aspettativa di vita crescente e la difficile sostenibilità fiscale di questa scelta”, dice l’economista. Oltre a possibili accorgimenti “manageriali” sul posto di lavoro, l’ex consigliere di Bush suggerisce di “favorire l’ingresso nei nostri paesi di persone più giovani che potenzialmente hanno maggiori doti di imprenditorialità, a partire dagli immigrati qualificati”. La crisi dei rifugiati può forse favorire l’Europa? “Occorre una politica consapevole”, si limita a commentare Lazear.