Perché c'è da temere quando lo Stato contratta per noi
Le definizioni da manuale del termine concorrenza sono sofisticate: si concentrano sulle condizioni di mercato che consentono alla competizione tra produttori di meglio soddisfare i consumatori, con i noti distinguo da regolo e compasso tra concorrenza perfetta e imperfetta. Ma c’è un elemento molto più semplice per spiegare cos’è la concorrenza: la libertà. E’ infatti la libertà di scegliere e farsi scegliere e, con essa, quella di giudicare, comparare, tentare, senza che vi sia qualche autorità estranea a quella relazione di scelta che imponga, con limiti e vincoli imperativi, la sua volontà su quella delle parti. La concorrenza, in questo significato essenziale, è qualcosa di molto vicino alla libertà contrattuale, cioè la libertà delle persone di “trarre insieme” un accordo libero per creare un vincolo giuridico tra di loro. E’ convinzione comune che la concorrenza, per essere buona, debba però essere regolata, e quindi la libertà contrattuale limitata. Il problema, come sovente accade con l’autorità sovrana, cioè con la politica, sono i limiti alla possibilità di porre limiti. E’ la stessa politica, infatti, che sposta avanti o indietro quei limiti, e che al momento parrebbe incline – il condizionale è d’obbligo – a far fare un passo indietro allo stato: le poste, le ferrovie, la legge annuale sulla concorrenza. Promuovere le liberalizzazioni dei servizi di rete o avviare la privatizzazione di grandi settori dell’economia sottoposti tradizionalmente all’intervento diretto dello stato è senz’altro doveroso per la tutela della concorrenza come libertà di scegliere e essere scelti, ma non deve distrarci dall’eliminazione di ostacoli a quella stessa libertà meno eclatanti ma non meno significativi.
Ad esempio, il divieto della clausola di parità tariffaria tra agenzie di viaggi online (Ota) e albergatori è del tutto incomprensibile, se non beffardo, dato che rischia di aprire un’infrazione europea proprio sotto i piedi della legge sulla Concorrenza. Nessuno, né la legge né lo stato di necessità, impone a Ota e alberghi di firmare un contratto. Se lo fanno, vuol dire che una banale analisi di costi e benefici li ha indotti a immaginare che, dalla sua sottoscrizione, i secondi saranno superiori ai primi per entrambe le parti, compresa quella comunemente ritenuta debole. In maniera simile, il divieto di applicare sconti superiori al 15 per cento sul prezzo di copertina dei libri è uno sfregio alla concorrenza, un insulto alla libertà del libro di farsi scegliere anche per il prezzo che ha reso in nome di una promozione della lettura e del pluralismo editoriale che è soltanto arroganza dello stato di intromettersi nella libertà contrattuale tra lettori e librerie. Un terzo esempio attiene al commercio al dettaglio. Imporre obblighi di chiusura, come previsto da un ddl approvato alla Camera senza alcun voto contrario, non ha alcuna ragione superiore di tutela delle parti deboli del mercato: non è obbligando Tizio a stare chiuso che Caio trarrà un vantaggio competitivo, ammesso che lo debba trarre.
Parità tariffaria, sconti sui libri, orari di vendita sono questioni che riguardano settori economici disparati con un elemento comune: soffrono dell’improprio significato che diamo al termine concorrenza come un’arena costruita a tavolino dove i grandi non devono mai essere troppo forti e i piccoli troppo deboli. Vietare alle agenzie di viaggio di imporre la parità tariffaria, impedire alle librerie di applicare sconti forti sui titoli, obbligare le strutture di vendita a stare chiuse a Natale tradiscono un’idea rigida di concorrenza che non è, come dovrebbe, libertà di scelta per tutti gli attori in gioco, in primo luogo i consumatori, ma maldestra protezione in sé e per sé del piccolo verso il presunto grande, dell’indipendente verso l’organizzato.
[**Video_box_2**]I divieti che riguardano questi tre esempi non sposteranno, da soli, il pil del paese, ma se li mettessimo uno accanto all’altro, con i tanti altri minori e ingiustificati vincoli alla concorrenza esistenti, come ad esempio la vendita dei farmaci di fascia C, ne ricaveremmo una lunga coda di tessere che, al loro cadere, provocherebbero un effetto domino probabilmente non irrilevante anche per la nostra affannata economia.