Salvò il mondo o osò poco?
I mea culpa di Bernanke, una lezione per i critici del bazooka di Draghi
Roma. “Magari avessi fatto di più. Forse, in retrospettiva, avrei dovuto farlo”. Ancora? E cos’altro? Ben Shalom Bernanke ha aiutato a salvare il mondo dal disastro e per questo “dovrebbe essere ringraziato dall’umanità intera che, essendo umana, si guarda bene dal farlo”, sostiene Martin Wolf che l’ha intervistato per il Financial Times. Ma Bernanke si rammarica di non aver spiegato fino in fondo le ragioni della Banca centrale, per salvare la sua indipendenza, per metterla al riparo dagli attacchi da destra (ha fatto troppo, ha un potere eccessivo, ha creato le premesse di un nuovo crac) o da sinistra (ha salvato le banche non la gente comune). E di non aver dato agli Stati Uniti una crescita ruggente come quella scaturita dalla bacchetta del Maestro (alias Alan Greenspan) nella cui orchestra aveva cominciato a suonare nel 2002. Bernanke, sia chiaro, non è così umile da negare i propri risultati. Il suo libro di memorie del resto è intitolato “Il coraggio di agire” e a lui quel coraggio non è mancato, fino al punto da introdurre un meccanismo come il Quantitative easing che segna “la fine dell’ortodossia”. Il professore ha portato alla Fed la sua preparazione accademica (Greenspan era un autodidatta che aveva lasciato l’università prima della laurea) e la sua conoscenza della Grande depressione. Ciò lo ha aiutato a scegliere. Conoscere per deliberare, alla Einaudi. Nel racconto di Bernanke c’è il momento in cui ha lasciato fallire Lehman Brothers (“non c’era alternativa perché nessuno la voleva comprare e non potevamo nazionalizzarla”). E molto altro ancora.
C’è il ricordo di quando il giorno dopo Lehman Brothers ha salvato Aig (la gigantesca compagnia che assicurava le assicurazioni) con un prestito di 85 miliardi di dollari che scosse il Congresso. “E’ una sua decisione e una sua responsabilità”, gli disse il potente senatore Harry Reid, leader dei democratici. Bernanke se l’è assunta senza scaricarla sull’Amministrazione Bush.
Eppure, si poteva fare di più. Ma non è tutta colpa di Helicopter Ben. L’ex presidente della Fed lo ammette e leva il dito contro le responsabilità tedesche e i ritardi della Banca centrale europea. “La Bce sotto la leadership di Mario Draghi alla fine ha realizzato un vasto programma di quantitative easing – scrive Bernanke – ma non è cominciato fino al 2015, quasi sei anni dopo che programmi simili sono stati messi in opera negli Usa e nel Regno Unito”. Francoforte ha suonato a lungo una musica diversa. Berlino e i suoi alleati nell’Eurozona “hanno spinto troppo duramente e troppo presto per l’austerità fiscale in paesi (Germania compresa) che non avevano problemi fiscali a breve termine, mentre nello stesso tempo resistevano ad azioni monetarie non convenzionali”. Ieri Draghi, come per rassicurare i mercati che giovedì avevano accolto freddamente le nuove misure, ha aggiunto che per la Bce “non ci possono essere limiti” nell’utilizzo di strumenti utili a raggiungere l’obiettivo dell’inflazione al 2 per cento. Parlando a New York, il banchiere italiano ha anche risposto indirettamente a Weidmann, dicendosi “non d’accordo” con chi dice che la politica monetaria espansiva “frena le riforme”.
Su questo c’è del feeling con Bernanke insomma. L’ex banchiere statunitense non è un keynesiano spendi e spandi, segue la dottrina fiscale americana secondo la quale il bilancio pubblico va usato come un organetto: si gonfia quando c’è la recessione e si sgonfia con la ripresa. Negli Stati Uniti è successo esattamente questo dopo il crollo del 2008. Per Bernanke, la politica fiscale in equilibrio è neutrale nel senso che non ostacola né stimola di per sé l’attività economica. Ciò vuol dire che l’austerità va bene quando la produzione e l’occupazione aumentano, allora si mette fieno in cascina per i tempi delle vacche magre. Perché arrivano, non c’è dubbio. L’ex capo della Fed sottolinea con orgoglio che questa volta non sono stati commessi i madornali errori degli anni 30, ma non è stata certo eliminata la possibilità di una nuova crisi. L’economia resta ciclica, il problema è capire quando arriva la bufera e soprattutto avere a disposizione gli strumenti per affrontarla. Bernanke non condivide il pessimismo di Larry Summers sulla stagnazione secolare in arrivo, ma mette l’accento sull’importanza della leadership, combinando capacità decisionale e consenso.
[**Video_box_2**]Il pericolo oggi non è lo spazio che le Banche centrali hanno sottratto ai mercati e alla politica, né le loro pance gonfie, ma il tentativo da parte dei governi di riprenderne il controllo o l’illusione tecnocratica secondo la quale basta seguire una formula magica. “Mantenere la stabilità finanziaria – scrive l’economista – richiede attenzione sia agli alberi sia alla foresta”. Gli alberi sono le banche, la foresta è il quadro economico generale. E le banche restano un’incognita. Hanno bisogno di più capitale, di regole migliori e più chiare, di smaltire un eccesso di titoli marci che ancora riempie i loro bilanci. La riforma del sistema bancario è la grande incompiuta. Anche qui, Bernanke è in sintonia con il suo lavoro di studioso che ha calcolato il ruolo del sistema bancario nel ridurre o nell’amplificare le crisi (il cosiddetto moltiplicatore finanziario). Non ci sono parametri validi sempre e per tutti: l’ex capo della Fed crede nel valore degli stress test e sostiene che quelli americani sono migliori di quelli europei (la Bce è arrivata di nuovo in ritardo). La corsa agli sportelli è l’incubo che si presenta in ogni crisi e si è manifestato nel 2008 e in Grecia. Nessuno è in grado di evitare che accada di nuovo, ha a che fare con la psicologia collettiva non solo con l’economia, ma è possibile ridurre i rischi per i risparmiatori e attenuarne gli effetti. Insomma, si può fare di più.