Perché il nuovo bipolarismo europeo si gioca sul km 0 dell'economia
Una chiave di lettura unitaria della guerra civile che sta dilaniando il mondo arabo, anzi quello musulmano, e al tempo stesso di quel che sta accadendo nella politica europea, può essere sinteticamente proposta così: i popoli del Vecchio continente si dividono di fronte al fenomeno della globalizzazione. Ciascuna nazione vede crescere fortemente al suo interno la preoccupazione per l’invasione di persone, cose e idee aliene, per la perdita di identità culturale, per il meticciato; prevale invece la percezione dei benefici che possono derivarne in un’altra parte della nazione: in genere quella più istruita e più sicura di sé sul piano economico e professionale.
L’aumento rapido degli scambi internazionali, della mobilità delle persone, delle idee, dei capitali, delle imprese, dei beni e servizi, è cosa già ben percepibile nella seconda metà del secolo passato; ma è di questo secolo l’importanza politica della divergenza tra le persone nel modo di rapportarsi a questo fenomeno. Tanto che cambiano – e cambiano contemporaneamente nella maggior parte dei paesi dell’Europa e del medio oriente – i termini fondamentali del confronto politico: se nel Novecento lo spartiacque fondamentale correva tra chi aveva più a cuore il valore della giustizia sociale, del pareggiamento delle opportunità (sinistra) e chi il valore della libertà (destra), ora lo spartiacque più importante corre tra la tendenza a contrastare la globalizzazione, a chiudersi nella misura del possibile, e quella ad aprirsi, attrezzandosi per sfruttarne meglio i vantaggi. La dialettica destra/sinistra conserva, beninteso, una sua importanza, ma non corrisponde più alla scelta che, talvolta in modo drammatico, si impone come prioritaria. La paura, o anche solo il fastidio, nei confronti dell’alieno fanno aggio sia sull’amore per la libertà, sia sulla passione per la giustizia.
Consideriamo, innanzitutto, quel che sta accadendo nel mondo musulmano. Ciò che i jihadisti combattono con feroce determinazione è l’infiltrazione nel loro mondo della nostra cultura, del nostro stile di vita, dei nostri valori, di tutto quello che noi chiamiamo modernità. La guerra civile che hanno scatenato nei loro paesi non è né di destra né di sinistra: mira essenzialmente a ostruire i canali di comunicazione che li collegano al mondo circostante. I loro attentati nelle nostre città non hanno alcuna mira di conquista: mirano soltanto a costringere l’occidente a diventare nemico dell’islam, in modo da indurre anch’esso a chiudersi. Per impedire la contaminazione del mondo islamico, cercano di indurre noi col terrorismo a sbarrare le nostre frontiere.
Dall’altra parte, gli Orbán, i Farage, i Le Pen, i Salvini, gli xenofobi olandesi, svedesi e danesi, reagiscono proprio nel modo voluto dai jihadisti, cioè propugnando la chiusura delle frontiere e dei canali di scambio. In Germania la linea di faglia tra gli aperturisti guidati da Angela Merkel e gli oppositori passa all’interno del suo stesso partito. In Francia destra e sinistra, vissute per un secolo l’una per combattere l’altra, ora sono nei pasticci. Capiscono che al ballottaggio devono unirsi se vogliono battere il Front national; ma se si uniscono rischiano di confessare che i motivi simmetrici e opposti per cui ciascuna delle due ha chiesto finora il voto ai propri elettori non corrisponde affatto alla scelta di fondo di fronte alla quale il paese si trova. Questa scelta, invece, è posta esplicitamente dal Front national al centro del proprio appello agli elettori; i quali – e tra loro molti ex di sinistra: lavoratori deboli che hanno più da perdere con la globalizzazione – capiscono dunque benissimo perché votarlo. Quanto a destra “moderna” e sinistra “di governo”, esse sono rimaste agli appelli del secolo scorso, tra loro contrapposti ormai solo lessicalmente ma non sostanzialmente. Sul piano pratico, sulle cose che contano sono costrette a proporre le stesse cose: per questo i loro appelli in questo momento appaiono inconcludenti e comunque fuori tema rispetto alla questione politica centrale.
La scelta più importante oggi, in Francia come in ogni altro paese europeo, non è tra politiche di destra e di sinistra, ma tra politiche tendenti a frenare la globalizzazione e politiche tendenti ad attrezzare il paese per trarre dalla globalizzazione tutti i possibili vantaggi con il minimo costo. Da una parte, dunque, le politiche tendenti alla difesa delle sovranità nazionali, al ritorno alle vecchie frontiere fortificate, alla difesa dell’identità, alla protezione di imprese e lavoratori indigeni contro la concorrenza di chi viene da fuori, all’economia del “chilometro zero”; dall’altra le politiche tendenti, innanzitutto, alla costruzione di un ordinamento sovranazionale continentale, quindi alle riforme interne per rendere possibile l’integrazione europea, tendenti inoltre a favorire l’afflusso di investimenti stranieri come portatori di innovazione tecnologica, lo scambio culturale, la mobilità delle persone, dei beni, dei servizi. A ben vedere, la costruzione della nuova Unione europea non è altro che il primo capitolo della politica di chi vuole aprirsi alla sfida della globalizzazione e si sente in grado di vincerla. Viceversa, il rifiuto di questa prospettiva costituisce il primo capitolo della politica di chi quella sfida la respinge, vedendone come prevalenti i rischi e i costi.
Una nuova forma di manicheismo (globalizzazione = bene; localismo = male, o viceversa) sarebbe, beninteso, del tutto fuori luogo: così come nella dialettica politica tradizionale le persone di destra hanno a cuore in qualche misura anche la lotta contro la povertà e quelle di sinistra il valore della libertà, allo stesso modo la nuova dialettica centrata sulle risposte da dare alla globalizzazione vede idee di una parte condivise da militanti della parte avversa, e viceversa. La risultante sarà, di volta in volta, una scelta politica nella quale troveranno spazio, in varia misura, idee e istanze dell’una parte e dell’altra. Ma è indispensabile che il linguaggio e i contenuti del discorso politico dei fautori della risposta aperta alla globalizzazione cambino rispetto al passato. Occorre che essi ridimensionino esplicitamente – almeno fino a quando la crisi odierna sarà superata – l’importanza delle vecchie contrapposizioni del Novecento e si concentrino sulle misure volte a tranquillizzare i più deboli, quelli che dall’apertura ai grandi venti planetari hanno più da perdere. Altrimenti, se destra moderna e sinistra di governo continuano a dividersi sui crinali tradizionali, esse rischiano di perdere la loro battaglia comune senza neppure combatterla.
Per venire alle cose di casa nostra, capisco bene i Lupi e i Bersani quando avvertono all’unisono: “Le primarie insieme? Mai!!”. Al primo fa venire ancora l’orticaria l’idea di “stare con degli ex comunisti”; al secondo l’idea di “stare con degli ex berlusconiani”. Sta di fatto che ormai da quattro lunghi anni, per la forza delle cose, essi votano insieme in Parlamento e sostengono gli stessi governi. A ben vedere, entrambi sanno che per il bene del paese continueranno a votare insieme almeno per altri due anni e mezzo, con la prospettiva di farlo anche nella prossima legislatura. Perché sanno che dall’altra parte ci sono i grillini, i leghisti e i Fratelli d’Italia che si propongono di indire il referendum per uscire dall’euro; oppure gli ammiratori dello Tsipras 1.0, impegnati a promuovere altri referendum che vanno sostanzialmente nella stessa direzione, abrogare le riforme indispensabili per consolidare la posizione dell’Italia in Europa, quindi nel mondo globalizzato. Lo sanno, ma tardano a mettere a fuoco questo dato: la distinzione tradizionale fra destra e sinistra, che certo conserva una sua importanza, non corrisponde all’alternativa fondamentale di fronte alla quale il Paese si trova in questo decennio, forse anche nel successivo.
[**Video_box_2**]Matteo Renzi ha il merito di avere messo a fuoco questo dato per primo. Ha capito che la vecchia politica annaspa nell’inconcludenza proprio per non averlo messo a fuoco. Si propone dunque di ridefinire un bipolarismo che corrisponda alla scelta di fondo che la politica italiana è chiamata oggi a compiere.
Rispetto al nuovo spartiacque, all’inizio di questa legislatura erano schierati sulla posizione della chiusura una metà del Pdl, la Lega, il M5s, quasi tutta Sel e una porzione del Pd; sul versante opposto stavano la maggior parte del Pd, tutta SC, l’altra metà del PdL, un pezzettino di Sel. Il governo Renzi è espressione di questo nuovo bipolarismo. Il premier si propone di salvaere, consolidare e se possibile ampliare lo schieramento che sostiene la scelta giusta, quella di una Italia che sa stare al gioco dell’economia globale; ma lui sa bene quanto questa scelta sia difficile e a rischio di essere ribaltata. Altro che “partito della nazione”, “partito pigliatutto”: alle prossime elezioni sarà già una bella impresa mettere insieme il 50 per cento più uno degli elettori a sostegno di questa scelta. Tanto più che non è stata ancora messa a punto compiutamente la parte del programma dedicata alla protezione o all’indennizzo della parte del paese che della globalizzazione, effettivamente, ha più motivo di avere paura.