Ilva è già un fallimento
Alla Vigilia di Natale dell’anno scorso Matteo Renzi, il presidente del Consiglio che aveva già fretta di cambiare l’Italia, si cimentò con la siderurgia e annunciò un piano di gestione pubblica temporanea dell’acciaieria Ilva di Taranto che prevedeva 2 miliardi di euro di investimenti. Un piano le cui risorse si sono materializzate solo in minima parte e che a oggi è deragliato. Renzi ambiva a rilanciare il periclitante stabilimento siderurgico a ciclo integrale più grande d’Europa – semi-paralizzato già da metà 2012 da un sequestro contundente della procura tarantina che stava indagando per presunti reati ambientali contro la gestione di Emilio Riva, acciaierie di rango europeo – con la promessa di rivendere la fabbrica nel giro di un triennio al migliore offerente. Obiettivo: salvare l’industria, i posti di lavoro e l’ambiente insieme. Mission (almost) impossible. Renzi disse che la Commissione europea non avrebbe dovuto porre veti all’esecuzione del piano governativo. La direzione generale per la Concorrenza già allora, attraverso scambi di pareri con Roma, sollevava sospetti per aiuti di stato a favore di un’azienda ingombrante agli occhi dei concorrenti continentali (in particolare tedeschi) ma oramai in perdita cronica sotto la gestione commissariale e con un piede fuori mercato per via degli interventi giudiziari pregressi e la minaccia di azioni future.
In questo contesto le associazioni ambientaliste italiane agiscono da sobillatori presentando interrogazioni e ricorsi a Bruxelles quasi fossero dei concorrenti di Ilva; le stessa logica vista negli Anni Ottanta con la demonizzazione del nucleare italiano che poi consentì a Francia e Germania di avere energia a più basso costo. L’operazione renziana fu avviata con l’ottavo decreto legge per l’Ilva, dopo quelli dei precedenti governi Monti e Letta. Fu l’ultimo decreto firmato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella sua carriera politica pluridecennale; da giovane funzionario del Pci alla fine degli anni Cinquanta si adoperò insieme alla Dc per stabilire a Taranto il pachidermico siderurgico pubblico del gruppo Finsider che poi in piena Guerra fredda ricevette la prima grande commessa dall’Unione sovietica bisognosa di tubi per potenziare la sua rete di gasdotti (quando però il know-how di impianti e operai era essenzialmente americano). Per Renzi, che ha più volte promesso di fare visita ai tarantini, ma non è mai andato a stringergli la mano ufficialmente, il provvedimento era da considerarsi fondamentale per il “futuro dei bambini di Taranto”. Renzi, maestro di astuzia, lo disse rivolgendosi all’occhiuta Commissione europea e promise allo stesso tempo di volere avviare un piano di rigenerazione urbana della città ionica su cui insistono da decenni altre fonti di inquinamento potenziale come il porto mercantile, il grande Arsenale militare, il cementificio Cementir, la raffineria Eni. Una novità assoluta quella di dare in qualche modo sollievo ai tarantini e un’intenzione meritoria di cui però non si hanno più notizie. A un anno da allora, la partita di politica industriale più complessa e importante del paese attorno al primo stabilimento manifatturiero nazionale, per numero di addetti diretti e dell’indotto, è praticamente persa, salvo miracoli o a oggi imprevedibili colpi di scena. La partita si è fatta disperata per via di una serie di errori esiziali sommatisi negli ultimi anni e frutto essenzialmente di una classe politica che si affanna nel rincorrere le azioni della magistratura, anziché contrastarle, o addirittura – come vedremo con l’azione renziana – demanda al potere giudiziario la parziale quanto illusoria soluzione del complesso problema.
Gli effetti di questo modus operandi rischiano di essere catastrofici. Non è secondario per l’esito, che ragionevolmente si prevede gramo, il dilettantismo in campo siderurgico dei funzionari chiamati dall’esecutivo a tentare di raddrizzare la situazione. Perfino i Riva, dinastia di acciaieri, con l’incombere della crisi economica nel 2008 avevano chiesto una consulenza agli esperti colleghi giapponesi di Nippon Steel sulle contromisure per combattere la contrazione in arrivo. Siderurgici che chiedono consiglio a siderurgici. L’alfiere renziano tuffatosi nell’acciaio pugliese era Andrea Guerra, manager nel settore del lusso nominato nel dicembre 2014 consigliere strategico di Renzi, che ha ideato la procedura di potenziale soccorso e rilancio del siderurgico ma ha poi abbandonato l’incarico nove mesi più tardi contestualmente alla nomina come presidente esecutivo di Eataly, catena di centri commerciali del cibo italiano di alta gamma. Guerra se n’è andato lasciando in eredità Massimo Rosini un suo ex collega di Indesit, multinazionale di elettrodomestici, in qualità di direttore generale, ovvero un altro manager digiuno di acciaio. La strategia proposta da Guerra – creazione di un fondo in parte pubblico e in parte privato per ristrutturare Ilva per poi affittarne gli impianti a una newco che doveva partire a dicembre ma della quale non c’è traccia – non ha visto la luce prima della fuga del suo padrino e il suo destino è tuttora incerto, per non dire già segnato negativamente. E’ però comprensibile il disimpegno dell’ex ad di Luxottica: nelle riunioni governative per seguire passo-passo l’evoluzione, invero drammatica, della situazione del siderurgico a secco di liquidità e di commesse da tempo, Guerra non ha trovato manager dedicati alla missione aziendale, come succede in un board d’impresa, ma degli svogliati burocrati con la testa immersa in altre priorità “politiche” che ciarlavano al telefono allontanandosi dal tavolo della discussione. Ilva è in realtà una priorità politica di massima rilevanza: l’impianto e le attività connesse pesano per il 75 per cento sul pil della provincia di Taranto, per il 20 per cento sulle esportazioni della Puglia, per il 40 per cento del fabbisogno di acciaio del secondo paese manifatturiero d’Europa e una chiusura avrebbe un impatto sull’economia nazionale di 8-9 miliardi di euro, secondo le stime curate nel 2012 da Federico Pirro, professore di Storia dell’industria all’Università di Bari. Nonostante la rilevanza strategica il caso Ilva è stato trattato a lungo come fosse l’elefante rosa nella proverbiale stanza dei bottoni.
Gli errori commessi per quanto in buona fede sono stati molteplici, stratificati, e gli escamotage per rimediarvi hanno generato altre distorsioni talmente assurde da provocare vertigine nell’osservatore. Proveremo a identificarne alcune, tra le fondamentali, sperando di risultare chiari anche ai lettori non iniziati alla vicenda. Il perno del piano era sostanzialmente costituito dal recupero delle sostanze sequestrate a due componenti della famiglia Riva in un procedimento giudiziario del tutto diverso dal processo per disastro ambientale che attiene alla conduzione del siderurgico tarantino.
Piccola digressione: la settimana scorsa il processo “ambiente svenduto” che vede 47 soggetti imputati è tornato indietro all’udienza preliminare a pochi mesi dall’avvio per una svista del giudice per le udienze preliminari, Vilma Gilli, che l’aveva istruito ma non aveva segnalato un vizio di forma che avrebbe rischiato di comprometterne lo svolgimento in futuro (nel verbale non era stato indicato l’avvocato che nell’udienza del 23 luglio aveva sostituito gli avvocati di 10 imputati). Tutto da rifare, con un altro gup. In ogni caso si è perso tempo, e quindi soldi pubblici. Conclusioni: è l’ennesima riprova che i maxi-processi con molti capi d’imputazione e molti imputati hanno un certo appeal mediatico e fanno apparire i giudici dei giustizieri ma sono difficilmente gestibili e causano sprechi. Fine della digressione.
Per mesi alcuni importanti ministri – Federica Guidi (Sviluppo economico) e Gian Luca Galletti (Ambiente) – e il premier stesso hanno detto di essere in procinto di ottenere i 1,2 miliardi sequestrati in via cautelare nell’ambito di un’inchiesta a carico del defunto Emilio Riva e al fratello Adriano accusati di “truffa ai danni dello stato”. Come detto è un’inchiesta che non riguarda i reati ambientali tarantini ma una questione di supposta frode fiscale sulla quale la procura di Milano indaga da oltre tre anni senza avere ancora chiuso il fascicolo. Quindi non si è nemmeno arrivati a processo ma si vuole procedere al sequestro a danno di persone innocenti sino a prova contraria (una visione dispotica del diritto penale quella diffusa nel Palazzo di Giustizia di Milano, a quanto pare).
[**Video_box_2**]Il governo ha agito di concerto con il capo del pool reati finanziari della procura di Milano, Francesco Greco, titolare dell’inchiesta sui Riva e già consulente del governo dal febbraio 2014 per l’accordo fiscale italo-svizzero. E’ lui che ha contribuito a congegnare il meccanismo finanziario-giudiziario che avrebbe dovuto rendere possibile il salvataggio del siderurgico mediante i soldi dei Riva. Il meccanismo è diventato legge dello stato in sede di conversione del decreto natalizio “salva-Ilva”, con le modifiche suggerite da Greco, non a caso definito dal Corriere della Sera online del 12 febbraio 2015 il “deus ex machina” dell’operazione di salvataggio. I “soldi” dei Riva – non proprio “soldi” ma titoli finanziari di varia risma – una volta confiscati, entrati nella disponibilità del Fondo unico di giustizia (Fug) di Equitalia e poi convertiti in liquidi, sarebbero dovuti servire a sottoscrivere un prestito obbligazionario di pari ammontare per finanziare solo ed esclusivamente la ristrutturazione degli impianti secondo le migliori tecnologie ambientali, come prevede la legge. Il “miliardo e due arriverà” è stato il motivetto costante del can-can mediatico e della propaganda politica. Il Foglio dimostrò nel maggio scorso che questa architettura ardita della procura milanese – essenzialmente un’elucubrazione giudiziaria costruita su atti endoprocessuali che sinora non si identificano nemmeno in una sentenza di primo grado – si sarebbe rivelata fallace e quindi era da considerarsi illusoria. I soldi sono depositati presso quattro trust del baliato del Jersey, il “paradiso fiscale” sotto l’egida della Corona britannica, e sono nella disponibilità della banca svizzera Ubs, ma erano “scudati” in Italia. Era una missione impossibile recuperarli, ma nonostante l’evidenza la balla ha continuato a correre. I politici hanno avuto buon gioco a diffonderla, forse con eccessiva fiducia nell’operato dei giudici. Guerra, prima di lasciare Palazzo Chigi, ringraziò pubblicamente i “magistrati italiani” per il lavoro svolto e la collaborazione (riteniamo quelli di Milano e non quelli di Taranto, ovviamente). In una riunione riservata al ministero dello Sviluppo economico il 21 ottobre scorso, il ministro Federica Guidi, affiancata dai tre commissari Ilva nel frattempo spinta in amministrazione straordinaria (Gnudi, Laghi e Carrubba), confidava che il recupero sarebbe avvenuto entro fine anno. Troppa grazia. Ma la fiducia fu tale che nella legge di Stabilità 2016 sono stati inizialmente previsti 800 milioni di euro con garanzia pubblica in aggiunta ai 400 milioni prima assicurati dalle banche (per arrivare al “miliardo e due”), tanta era la sicumera di recuperarli rapidamente. Avevamo ragione a dubitare.
Il 18 novembre scorso il Tribunale penale federale di Bellinzona – corte composta dai giudici Stephan Blatter, Andreas J. Keller e Cornelia Cova – ha respinto in quanto nulle e prive di fondamento le richieste della magistratura italiana di confiscare i titoli dei Riva accogliendo infatti il ricorso dei legali rappresentanti dei trust del Jersey e dei loro beneficiari (Elio Brunetti e/o Patrizia Holenstein e/o Alexander Glutz) contro l’Avvocatura dello stato del cantone di Zurigo, ovvero un organo politico che, pur senza averne titolo secondo la corte, aveva favorito il tentativo della procura milanese di recuperare i denari di un privato senza che ci fossero gli estremi legali per farlo, ovvero una condanna definitiva o la salvaguardia minima del diritto di proprietà dell’imputato. La decisione del Tribunale, che il Foglio ha letto in italiano e nella sua interezza (80 pagine), è esemplare e merita di essere spiegata visto che l’assurda convinzione dei giudici italiani di avere inteso il sequestro come definitivo viene stigmatizzata nell’argomentazione dei giudici elvetici al punto da mettere in discussione i rapporti intercorsi tra Italia e Svizzera. In fondo se era dai soldi dei Riva che dipendeva il successo del piano renziano per l’Ilva, in questo caso specifico è qui che casca – e casca male almeno a sentire i giudici elvetici – la politica industriale del governo. La censura di Bellinzona colpisce: i vizi di forma e di sostanza nelle due rogatorie presentate; la richiesta di sequestro senza processo che è inaccettabile per la Costituzione svizzera e anche qualsiasi altra di uno stato democratico; l’assenza totale da parte dell’Italia di una garanzia per le persone coinvolte di rivedere i loro soldi, che nel frattempo sarebbero stati dissipati, se dichiarate infine innocenti; e dulcis in fundo i giudici di Bellinzona adombrano il “favoreggiamento” nei confronti dell’Avvocatura e dell’Ufficio federale svizzero – alla prima si è impropriamente rivolta la procura milanese per ricevere aiuto, la seconda ha invece disposto il congelamento delle sostanze di un privato innocente fino a prova contraria – per avere fornito illecitamente assistenza, cioè in deroga alla legge svizzera, al fine di soddisfare le pretese italiane. In estrema sintesi: siccome la rogatoria ha natura penale, mentre la fonte della richiesta italiana riguarda essenzialmente atti di diritto amministrativo e civile (le leggi e i decreti a favore dell’Ilva), tale richiesta è nulla da principio. Non solo; essendo stata avallata da organi dello stato svizzero che non avrebbero nemmeno dovuto prenderla in considerazione, essa rappresenta un mostro giuridico mai visto, che non a caso il Tribunale di Bellinzona si trova costretto a censurare senza mezzi termini. Dopodiché anche se il “miliardo e due” fosse giunto nei tempi previsti è fuor di dubbio che non sarebbe stato impiegato per l’installazione di nuove tecnologie ambientali, come dovuto per legge, ma semmai per tenere in vita il siderurgico.
In ogni caso, il governo non aveva pronto un “piano B” in caso di manifesta incapacità a recuperare i denari dei Riva e quindi è stato costretto a modificare la legge di Stabilità così come approvata dal Consiglio del ministri, nella quale si dava per scontato un successo dei magistrati italiani. Per rimediare, è stato previsto lo stanziamento di 300 milioni di euro, ossia 50 milioni al mese per sei mesi, da qui a giugno. Da notare che 50 milioni è più o meno la cifra che Ilva perde mensilmente. I 300 milioni a oggi rappresentano l’unico canale finanziario al quale l’acciaieria potrà attingere nei prossimi mesi e che, si presume, serviranno da subito a pagare gli stipendi di dicembre, le tredicesime e i premi di produzione degli oltre 15 mila dipendenti del gruppo in Italia. Da qui anche la necessità del governo di arrivare a cedere gli impianti mediante un altro decreto – come annunciato dal sottosegretario Claudio De Vincenti, ex dirigente del ministero dello Sviluppo economico – entro la metà del 2016 ai privati italiani o stranieri interessati. La mossa di annunciare una vendita rapida sembra funzionale a evitare il rischio di incorrere in una procedura d’infrazione da parte della comunità europea per aiuti di stato. Ma non è detto che vendere in fretta e furia sia sufficiente a evitare multe. Tuttavia lasciare intendere che all’orizzonte ci sia un privato disposto a comprarla è anche un modo per giustificare un finanziamento pubblico all’Ilva come se fosse un prestito ponte che verrà restituito; mutatis mutandis un po’ come fu per Alitalia – che passava da mani pubbliche in mani private – in previsione della vendita alla cordata di imprenditori italiani che la rilevò nel 2008.
Il quotidiano Repubblica ieri dava per “probabile” il ritorno di ArcelorMittal nei prossimi mesi. La compagnia siderurgica anglo-indiana con base in Lussemburgo era stata invitata ad analizzare il dossier già l’anno scorso dal governo italiano, tramite il commissario Piero Gnudi che sostituì Enrico Bondi. Altre società avevano sbirciato la data room come Jws Steel (India), Emirates Steel (Eau), Companhia siderúrgica nacional (Brasile), Texas Pacific (Usa), Marcegaglia e Arvedi (Italia). Arcelor aveva sospeso le trattative soprattutto per via delle greppie giudiziarie – tuttora presenti – attorno allo stabilimento tarantino, rinviando di fatto sine die l’acquisto. Il governo oggi aggiunge però un nuovo elemento di interesse per un eventuale compratore: l’inedita possibilità di modificare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ossia quella pachidermica procedura burocratica diventata legge dello stato – un obbligo verso il quale la gestione commissariale è inadempiente ma che i Riva avevano a suo tempo accettato e che avevano iniziato ad attuare prima di essere definitivamente estromessi dalla proprietà per volere dell’esecutivo renziano. Con l’Aia si fissano in dettaglio le migliorie da apportare per completare il risanamento ambientale dello stabilimento. Resta da capire perché una modifica dell’Aia verrebbe ora concessa a un privato-salvatore quando venne negata ai Riva. E soprattutto se Arcelor abbia davvero interesse a rilevare un’azienda che ha visto allontanarsi clienti storici, come Fiat, e ha perso commesse su cui il governo aveva puntato molto in termini diplomatici, vedi i tubi del gasdotto azero-italiano Tap visto che Ilva non poteva garantire con certezza la consegna entro i tempi. E’ poi la stessa ArcelorMittal, uno dei più grandi produttori d’acciaio al mondo, che prevede una diminuzione del consumo di acciaio dell’1,5-2 per cento nel 2015 rispetto al 2014. Ed è la stessa compagnia a essere sotto pressione, come molti concorrenti, per il ribasso dei prezzi di vendita dell’acciaio in particolare in America Latina. Fattore quest’ultimo che ha concorso a determinare la revisione al ribasso del rating di Arcelor (da Ba1 a Ba2) da parte dell’agenzia Moody’s, visti gli inferiori margini di guadagno previsti nei prossimi mesi.
Senza un soccorso esterno servirà un “piano C” per salvare dipendenti e indotto: ossia ulteriori ammortizzatori sociali dai costi imprevedibili oppure dare garanzie di reimpiego agli addetti che non riescono a ricollocarsi altrimenti – i giovani ingegneri dello stabilimento di Taranto hanno possibilità di migrare altrove, gli operai non specializzati non si sa. Il governo rischia quindi di dovere affrontare una nuova e pesante ondata di malcontento dopo il risentimento anti bancario di questi giorni.
Più dell’ennesima richiesta indirizzata al governo di fare di più anche per gli stabilimenti Ilva di Novi Ligure, di Genova e di Cornegliano che lavorano i prodotti di Taranto arrivata domenica scorsa dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, è significativo il discorso dell’ammiraglio di squadra, Giuseppe De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina militare, cioè il comandante supremo delle forze navali della Repubblica. Il 6 novembre scorso, in occasione della cerimonia di cambio al vertice del Comando marittimo sud, l’ammiraglio è il primo alto funzionario dello stato a ipotizzare il reimpiego della forza lavoro del siderurgico tarantino, che si compone di 11.500 addetti diretti dell’età media di 35 anni circa. Ne ha parlato come se fosse già ovvia la necessità di trovare strade alternative a Ilva: “Noi conosciamo l’importanza di risolvere nel migliore dei modi il problema occupazionale legato al siderurgico. L’Ilva può trovare una compensazione […] Se noi riuscissimo effettivamente a sbloccare il turn-over e rilanciare l’Arsenale – ovvero il bacino d’impiego pubblico pre-Ilva ora pressoché in disarmo, ndr – e le sue potenzialità, non c’è dubbio che questo potrebbe essere messo anche a sistema dal punto di vista socio economico con la gestione del problema Ilva”, ha detto De Giorgi.
Nel frattempo bisogna ricordare che il mercato globale è caratterizzato da un’enorme sovracapacità produttiva. “Un’uscita dal mercato europeo da parte di Ilva è nei sogni di tutte le acciaierie a ciclo integrato in Europa, perchè porterebbe un vuoto di produzione che darebbe margini lavorativi a tutti gli altri. E’ lecito aspettarsi altre bordate da tutte le associazioni europee e dai maggiori produttori nei prossimi 6-9 mesi”, dice al Foglio Claudio Accheri, analista di Kallanish Commodities, società di analisi indipendente con sede a Londra.
Dopodiché tra gennaio e settembre di quest’anno le importazioni di prodotti piani (coil, nastri, lamiere ecc.), cioè il piatto forte di Ilva, da paesi extra-europei sono aumentate del 54,4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo i rilevamenti Federacciai. Stante la difficoltà oggettiva nel capire quali siano esattamente i compratori e i venditori – il nostro paese ha una enorme filiera produttiva che opera a vari livelli, dai trader, ai centri servizi, ai produttori – questa è un’inedita impennata che solleva sospetti tra gli osservatori. Il sospetto (fondato) è che l’inondazione arrivi in massima parte dalla Cina, potenziale monopolista globale per capacità produttiva installata. Le importazioni italiane sono più alte rispetto a quelle degli altri paesi europei. Quanto basta per ipotizzare che senza un’Ilva a pieno regime – tra le 8 e le 10 milioni di tonnellate l’anno, livelli raggiunti solo durante la gestione Riva e ora impossibili per conclamati deficit strutturali – l’Italia si stia trasformando nell’hub europeo di acciaio cinese a basso costo. Il costo del prodotto lavorato o semi-lavorato importato dalla Cina a volte è addirittura inferiore di quello del rottame. Un elemento che giocherà un ruolo chiave sarà l’imposizione di dazi sui prodotti piani nei prossimi 6-9 mesi. L’Europa ha lavorato relativamente bene sui prodotti lunghi (travi, tondi, laminati mercantili ecc.) ma ha lasciato il mercato dei piani abbastanza libero ed è anche su questo che si sono concentrare le discussione della comunità degli acciaieri europei riunitisi a Bruxelles il mese scorso su impulso del Regno Unito che guida il fronte anti-dumping cinese.
Basta osservare la crescita dell’automotive in Europa per capire di che margini stiamo parlando quando parliamo di prodotti piani, con Spagna, Italia e più o meno tutti i mercati in Europa, tranne la Francia, che stanno mostrando segni di ripresa. In nord Africa invece l’ondata di prodotti cinesi sta determinando distorsioni nei mercati in cui i produttori italiani – in questo caso di prodotti lunghi – hanno storicamente ottenuto risultati positivi, l’Algeria su tutti.
Cosa succederà a Ilva da qui in avanti è difficile dirlo: ci sarà una vendita degli impianti di lavorazione al nord e una dismissione di quelli al sud? Chissà. Ieri dal lungomare di Taranto non si scorgevano le navi mercantili cariche di minerali che da anni di solito puntellano l’orizzonte della città bimare. Cattivo presagio.
tra debito e crescita