Salvataggi, banche e mercato. Qualche puntino sulle “i”
E’ diffusa opinione che le “vittime” delle obbligazioni subordinate delle banche appena “salvate” dal governo non vadano abbandonate al loro destino. Regole vigenti, applicate con prudente giudizio, e arte del buon governo impongono sul tema riflessioni non emotive. Sono in circolazione titoli di questa specie per oltre 60 miliardi, di emittenti non sempre solidissimi, ed enorme è il pacchetto complessivo di titoli cosiddetti “sintetici” collocati.
Caratteristica delle obbligazioni subordinate è quella di “vendere” il rischio di perdere il capitale investito in cambio, di norma, di una remunerazione superiore alle condizioni correnti di mercato. L’eventuale crisi dell’impresa che le ha emesse finisce col gravare sul credito dell’investitore con contestuale svalutazione/azzeramento del suo valore. L’obbligazione subordinata è, dunque, titolo di “rischio”. Bene, perciò, ha agito il governo nel congegnare il decreto Salva banche, a prender atto della perdita di valore per esse verificatasi, come per i portatori di titoli azionari. Così operando, non si è fatto altro che rispettare le regole vigenti.
E’ dalla fine degli anni Settanta che in Italia, con la “scoperta” dei cosiddetti titoli atipici, operatori di mercato vecchi (banche, eccetera) e nuovi (fondi e altri) si contendono il risparmio disponibile con prodotti “innovativi” che, di solito, promettono allettanti investimenti. Vera e propria nuova “corsa all’oro” intesa in passato, anche da parte dei pubblici poteri, come ventata di modernizzazione dell’asfittico e anchilosato mercato del capitale, per lungo tempo riserva esclusiva di caccia del sistema bancario. Plotoni di giuristi e pubbliche autorità, in questo clima, contribuirono ad assemblare congegni idonei a sostenere l’azione dei pionieri della finanza innovativa, addirittura brandendo il principio (espresso dalla Suprema Corte americana) secondo cui “chiunque può vendere uova marce ad un milione di dollari l’una, purchè il compratore sia informato che le uova sono marce, che il prezzo è esagerato e che, in fondo, non si tratta di un buon affare”. Del modello statunitense si colse sino in fondo l’estensione del principio di libertà e non allo stesso modo, però, quello di garantire, ad un tempo, assoluta trasparenza nella pratica degli affari. Tutti gli attori si attrezzarono per contendersi gli spazi aperti dalla nuova visione di mondo e avvenne, in siffatto contesto e con detti nuovi strumenti (tra i quali, le obbligazioni subordinate), la ricapitalizzazione di aziende di credito grandi e piccole. Sempre poca attenzione è stata prestata alla tutela del risparmiatore sia in senso formale (conoscenza certa e consapevole del rischio giuridico della perdita del risparmio investito) sia sul piano sostanziale (livello di solvibilità del debitore). Incomprensibili e complicati prospetti informativi hanno potuto, così, sistematicamente supportare l’emissione di titoli-spazzatura, con il solo obiettivo di rendere l’emittente indenne da responsabilità, pur quando attraeva l’investitore nelle più disinvolte e spregiudicate pratiche. Indiscussa, perciò, la vaporosità dell’azione dei pubblici poteri nel garantire l’effettiva e corretta trasparenza del mercato con l’aggravante, talvolta, di risultare inconsapevoli istigatori del ricorso alle pratiche più aggressive. Più d’ogni altra considerazione, eloquente l’esempio.
Banca d’Italia: sana e prudente gestione?
Le banche “graziate” dal governo erano agonizzanti da tempo. Banca d’Italia ne aveva rimarcate le gravi difficoltà, limitandosi, però, a sollecitare robuste capitalizzazioni, senza dar peso al modo di effettuarle, per essere la materia estranea alla sfera di competenza del vigilante (e il principio di sana e prudente gestione?). E’ potuto così accadere che ignari risparmiatori siano potuti essere turlupinati, senza che nessuno degli attori in campo porti formalmente responsabilità: l’emittente delle obbligazioni subordinate perché informava, col prospetto, sulla rischiosità del titolo; Banca d’Italia perché non investita da altri compiti se non quelli di vigilanza. E’ tanto, per il vuoto di responsabilità, in materia, esistente (per carenza di disciplina) e artatamente creato (col prospetto informativo), trappola persino di ignari dipendenti delle stesse banche appena salvate (popolare delle Marche). Il principio costituzionale di tutela del risparmio – all’attuazione della piena ed esaustiva osservanza del quel non può essere insensibile la Banca d’Italia – sicuramente impone, come proposto, che i prodotti potenzialmente rischiosi circolino esclusivamente all’interno di circuiti riservati agli operatori professionali. Ma non basta. E’ noto che, addirittura, questi stessi operatori possano incontrare difficoltà nel conoscere e valutare la tossicità degli strumenti finanziari scambiati sul mercato (obbligazioni cosiddette “sintetiche”, eccetera).
[**Video_box_2**]Occorre fare di più. Ad esempio, dotare di opportuni poteri, anche ispettivi, qualche pubblica istituzione per porla nella condizione di conoscere quello che realmente un titolo “incorpora”, cioè a dire rappresenta (credito, quote di società, di fondi, di altri titoli, etc), allo scopo di valutarne l’affidabilità e la rischiosità, prima di autorizzarne la collocazione sul mercato. Inevitabile, poi, rendere i risultati di siffatta valutazione di pubblico dominio, in maniera chiara ed essenziale, con tutti gli strumenti informativi disponibili, evidenziando tasso di remunerazione e suoi eventuali scostamenti da quelli correnti di mercato, oltre al livello di rischiosità, opportunamente graduato, di quel che si offre agli investitori. A questo compito può senz’altro attendere Banca d’Italia, per il ruolo istituzionale (e nel quadro dei servizi da rendere al consumatore), oltre che per competenza in materia di tutela del risparmio e per il capitale umano (non di rado pregevole) di cui dispone, non sempre e non pienamente utilizzato a presidio e tutela della pubblica fede. Quanto al resto, si pensi ad altra forma di aiuto alle vittime ignare (e solo queste, a cominciare dalle più deboli) dei prodotti finanziari tossici ad esse venduti. E tanto per evitare di creare un precedente legato a forme più o meno esplicite di risarcimento di danni a carico dello stato, per malversazione di terzi in potenziali casi similari. Una soluzione di tale fatta non è auspicabile: qualità e quantità, prima ricordate, di titoli anomali in circolazione sconsigliano energicamente qualsivoglia commistione tra buonismo e pratica di buon governo.