Investitori alla roulette
Il sogno dello sviluppo energetico italiano è battuto dal populismo
Roma. Lunedì il governo di Matteo Renzi ha dimostrato di volere anteporre gli interessi particolari dei cacicchi locali, ovvero dei governatori esagitati di alcune regioni, allo sviluppo economico nazionale, rovinando la già sgualcita reputazione dell’Italia agli occhi degli investitori esteri. La sorprendente decisione di ripristinare il divieto di ricerca e produzione di idrocarburi entro i 22 chilometri dalla costa (12 miglia) – inserita in un emendamento dell’esecutivo alla legge di Stabilità – annulla quanto lo stesso governo aveva deciso nel novembre 2014 con il decreto “sblocca Italia” teso a garantire lo sfruttamento delle riserve nazionali di gas e petrolio in mare. L’iniziativa del governo vuole disinnescare un referendum abrogativo su alcuni articoli dello “sblocca Italia” indetto da otto regioni (Puglia, Sardegna, Molise, Basilicata, Marche, Abruzzo, Calabria,Veneto) e accolto di recente dalla Cassazione. Il rischio di una vittoria dei referendari, con annessi comitati locali e associazioni ambientaliste, ha fatto premio sui propositi di rilanciare il settore estrattivo, con annessi potenziali investimenti miliardari. Fino a due settimane fa era stato l’esecutivo a contrastare gli emendamenti che ripristinavano i limiti alle perforazioni ma poi, post Cassazione, ne ha emanato uno di sua sponte. Il compromesso accarezza il consenso ma consegna l’esecutivo dell’ex sindaco di Firenze nelle mani del “partitone dei sindaci”.
Renzi si consegna ai governatori di regione dando ulteriore conferma che in Italia sono e saranno i tribunali amministrativi a decidere dei nuovi progetti industriali invisi a una popolazione incline a salire sulle barricate o sui tralicci. L’ultimo rapporto annuale Nimby Forum afferma che su 91 impianti contestati, 22 sono afferenti al settore degli idrocarburi. Il grillino collettivo avrà già motivo di esultare, ma l’emendamento governativo che dovrà passare dal Parlamento, ovvero un bacino di portatori sani della sindrome Nimby, preoccupa molto gli investitori.
Alcuni degli imprenditori petroliferi potenzialmente interessati hanno passato la giornata di ieri a interrogarsi sul da farsi e soprattutto, questo all’estero, a cercare di spiegare a se stessi e ai loro finanziatori il motivo del dietro front italiano. “E’ il terzo cambiamento legislativo in cinque anni, nulla è definitivo in Italia”, dice uno dei manager coinvolti che paragona il paese a una “roulette dove a un certo punto iniziano a togliere il colore sul quale avevi puntato”. Un azzardo estremo, dunque.
[**Video_box_2**]L’emendamento elimina “il carattere strategico di indifferibilità e di urgenza delle attività usptream (il refuso è del governo, ndr) sia a terra che in mare riconoscendo alle stesse carattere di pubblica utilità […] mantenendo quindi inalterate le prerogative regionali previste dalla normativa attualmente vigente”. Ovvero: il settore estrattivo non è più “strategico” per l’esecutivo e le regioni mantengono potere di veto. La relazione tecnica al provvedimento dice che le modifiche “non determinano effetti finanziari” per lo stato. Eppure verranno arrestati i progetti che non hanno ancora ottenuto quelli che sono definiti “titoli abilitativi” e non si capisce se sarà possibile ampliare quelli avviati. Checché ne dica la relazione vidimata dalla Ragioneria dello stato, ciò comporterà dei costi in termini di mancati investimenti, di mancate entrate per gli enti locali derivanti dalle royalty e, soprattutto, di possibili cause legali da parte delle compagnie danneggiate dalle giravolte del governo.
Non si conosce il numero di progetti che restano nel limbo ma il centro studi Nomisma Energia stima che almeno 5 miliardi di investimenti svaniranno “ma avrebbero potuto essere anche il doppio”. Sono penalizzate non solo le regioni referendarie ma anche quelle che non hanno sposato l’iniziativa, come l’Emilia Romagna che ospita il polo italiano delle multinazionali dell’ingegneria estrattiva.