Jobs Act, capitolo secondo
Marchionne e minimo salariale, assieme, agitano il sonno dei concertatori
Roma. Il 2016, ha detto su queste colonne il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dovrà essere l’anno del rilancio dell’occupazione e in particolare della contrattazione aziendale. Quest’ultima è la via maestra per allineare salari e produttività, e quindi assicurare competitività ai settori più in sofferenza a causa della concorrenza internazionale. Il 2016 sarà anche l’anno del cambiamento alla guida della Confindustria, con il mandato del patron di Mapei, Giorgio Squinzi, in scadenza. Il nesso tra le due partite, entrambe sistemiche per il futuro delle relazioni industriali italiane, si chiama “salario minimo”. Vediamo perché.
Si prenda la proposta presentata 48 ore fa da Federmeccanica, associazione di Confindustria che rappresenta il settore manifatturiero-metalmeccanico, per il contratto nazionale di lavoro 2016-18. Prevede, tra le altre cose, un “salario minimo di garanzia” per ciascun livello di inquadramento dei lavoratori, stabilito a livello centrale, e poi una parte importante della retribuzione variabile per premiare i risultati che sono valutati a livello aziendale. L’opposizione sul punto, da parte dei sindacati, l’ha esplicitata chiaramente Maurizio Landini che, nel metalmeccanico, con la sua Fiom rappresenta tutta la Cgil: “Non è accettabile che gli aumenti non vadano a tutti i lavoratori”.
Non è l’unica opposizione, però. Gli imprenditori del settore metalmeccanico, guidati da Fabio Storchi, rivendicano di aver elaborato “una proposta molto avanzata” in ragione della loro forte esposizione alla concorrenza internazionale. Come dire: siamo noi a subire, più di altri settori nazionali, il costo del lavoro eccessivo e le rigidità contrattuali onnipresenti nei vetusti schemi concertativi. D’altronde a fine ottobre non mancarono le schermaglie pubbliche con altri attori di Viale dell’Astronomia, come la Federchimica cui appartiene lo stesso Squinzi, accusati di aver fatto professione di fede riformatrice in pubblico per blandire l’esecutivo e poi di aver stretto il solito accordo vecchio stile (prima viene il potere d’acquisto, la produttività poi chissà) così da non incrinare la pax concertativa con i sindacati. Una forma di scarsa solidarietà tra “padroni” che non pochi vorranno far pesare nell’elezione per il successore di Squinzi che già nel 2012 vinse con scarso margine sul più marchionniano Alberto Bombassei, capo della Brembo. Allora fallì il primo tentativo di riportare Fiat nella Confindustria, associazione che il Lingotto un secolo prima aveva contribuito a fondare e che invece nel 2011 aveva abbandonato proprio in rotta con l’eccessivo attendismo mostrato sulla contrattazione aziendale dalla presidente Marcegaglia. Il riferimento a un “salario minimo” contenuto nella proposta di Federmeccanica, in quest’ottica, può funzionare da “amo” per tentare l’ad Sergio Marchionne.
[**Video_box_2**]Secondo la ricostruzione del Foglio, infatti, negli ambienti del Lingotto si guarda con favore all’idea di un “salario minimo legale”, presente in realtà pur diverse fra loro come gli Stati Uniti o la Germania o la Spagna: si fisserebbe così una retribuzione dignitosa e poi si lascerebbero le parti sociali “libere” di contrattare verso l’alto gli stipendi in base a redditività e produttività differenziate. Su questo, da Torino e da Detroit, fanno il tifo per quanti – nel governo Renzi – guardano proprio al salario minimo come a un ennesimo grimaldello anti concertazione. Federmeccanica adesso offre una mediazione: un “salario minimo” fissato nel contratto nazionale e non per legge, ma che – spiegava Storchi al Sole 24 Ore – ha lo stesso obiettivo del progetto Renzi: rivoluzionare le relazioni industriali. Sarebbe il secondo capitolo del Jobs Act, cioè la riforma renziana che Fca è tornata a salutare mentre annunciava la stabilizzazione di 300 giovani lavoratori nello stabilimento Sevel di Atessa.