Quanti silenzi e reticenze sui danni della retromarcia petrolifera
La decisione assunta dal governo di vietare prospezioni ed estrazioni di petrolio e gas in mare entro le 12 miglia dalla costa – superando così quanto era stato deciso invece con il decreto sblocca Italia dello scorso anno – è stato interpretato dai governatori delle regioni promotrici del referendum contro le precedenti disposizioni come la dimostrazione che il governo è capace di ascoltare la voce dei territori contrari alle estrazioni petrolifere.
E’ molto più probabile invece, a mio avviso, che nell’esecutivo abbia prevalso l’orientamento a un ripiegamento tattico per evitare il referendum – la cui proposta è stata ritenuta ammissibile dalla Corte di Cassazione, ma non ancora passata al vaglio della Consulta – e per posticipare a dopo la consultazione referendaria sulla riforma costituzionale del prossimo anno – la madre di tutte le battaglie – l’emanazione di nuovi provvedimenti che, in caso di approvazione popolare della ‘grande riforma’, sarebbero sottratti ai tuttora vigenti ‘poteri concorrenti’ delle regioni (previsti dal titolo V della Costituzione approvato nel 2001).
Nel frattempo però la perdita di investimenti soprattutto da parte di compagnie estere potrebbe essere molto significativa come ha stimato Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, causando così, da un lato, il mancato sviluppo di attività impiantistiche possibili in particolare nel sud e, dall’altro, il crollo o almeno il declino di quelle che attualmente si raccolgono nel polo di Ravenna che al momento (ma per quanto ancora?) resta uno dei cluster più rilevanti della naval-meccanica per l’offshore dell’intero Mediterraneo. La battuta d’arresto potrebbe avere ripercussioni negative anche sull’area di Taranto – ove sino al 2000 la Belleli Offshore costruiva grandi piattaforme che ancora oggi estraggono idrocarburi al largo di diversi paesi mediterranei – e nella zona di Priolo nel siracusano, ove si sono sviluppate aziende anch’esse interessate al rilancio delle estrazioni lungo le coste italiane. Lungo le nostre coste continuano a operare piattaforme di Eni e di Edison, dalla Romagna alla Sicilia, ma questo in tanti se lo dimenticano. E’ singolare sulla vicenda il silenzio (incredibile) dei sindacati, confederali e di categoria, pronti nell’ultimo anno e mezzo a dissentire su gran parte dei provvedimenti di politica economica del governo, ma stranamente reticenti su questo punto specifico.
[**Video_box_2**]Così come non sembra particolarmente preoccupata, almeno sino a oggi, la risposta della Confindustria che pure sul suo quotidiano negli ultimi mesi aveva segnalato il rischio di una perdita secca di nuovi investimenti per il nostro paese.
Stupisce inoltre il silenzio di larga parte del nostro mondo accademico, soprattutto delle università meridionali, che potrebbero avere interesse a sviluppare le tecnologie e le procedure estrattive ecosostenibili che sarebbero impiegabili nei nostri mari. Un mondo accademico invece sempre in prima linea nel rivendicare “adeguati riconoscimenti stipendiali”, fondi per nuove cattedre, assunzioni di docenti e personale amministrativo, ma che nella sua stragrande maggioranza (salvo lodevoli eccezioni) non appare mai (ribadisco, mai) in prima linea quando si tratta di combattere battaglie (scomode) per lo sviluppo del paese. E stupisce anche il silenzio di fondazioni e associazioni, come il Censis e la Svimez, sempre pronte a loro volta a segnalare il presunto “letargo” del paese, o i rischi di “sottosviluppo permanente del sud”, e poi assolutamente silenziose di fronte al radicalismo ambientalista. E ora chi pagherà i danni alle società già autorizzate alle prospezioni? Lo stato, ovvero tutti? E anche quelli favorevoli invece a esplorazioni ed estrazioni?
Federico Pirro, Università di Bari