Non solo Marchionne
Qualcosa si muove nella matassa delle contrattazione italiana. Movimenti importanti, perché riguardano il contratto nazionale per eccellenza, quello dei metalmeccanici, che custodisce sotto il suo manto 1,6 milioni di lavoratori. Come già illustrato su queste colonne, il 22 dicembre Federmeccanica ha presentato la sua proposta di “rinnovamento contrattuale” per il Ccnl ormai prossimo alla scadenza.
Molta dell’attenzione si è subito concentrata sulla proposta, difficilmente accettabile per i sindacati, di congelare gli aumenti salariali per tutto il 2016 e, a partire dal 2017, assorbirli in quello che viene definito il “salario mensile di garanzia”. Scelta questa giustificata come contropartita per gli aumenti degli ultimi anni, che hanno superato l’aumento dell’inflazione, concedendo un maggior potere d’acquisto ai lavoratori ma soprattutto con l’obiettivo, che ha fatto giustamente parlare di rivoluzione, di spostare il baricentro degli aumenti salariali dal livello nazionale a quello aziendale. Sentir parlare di salario mensile di garanzia non può non richiamare il dibattito aperto ormai un anno fa dalla legge delega del Jobs Act, nella quale si parlava di sperimentazione del salario minimo legale. In particolare nei mesi successivi si è ventilata più volte l’ipotesi, al momento non sostenuta da nessuna iniziativa legislativa, di individuare un salario minimo per coloro che non sono coperti dalla contrattazione collettiva nazionale (la quale in Italia tutela circa l’85 per cento dei lavoratori).
La conseguenza di tale azione potrebbe essere una fuga delle imprese dai contratti nazionali per potersi avvalere di un salario minimo più basso. Questo ridurrebbe molto il ruolo della contrattazione e modificherebbe l’assetto delle relazioni industriali, in una direzione meno pluralista e sussidiaria. La scelta quindi di Federmeccanica di ribadire a mezzo Ccnl il salario minimo, al di là delle legittime perplessità sindacali dal punto di vista economico-salariale, potrebbe manifestare la volontà di riaffermare la priorità delle relazioni industriali su altre forme più centralizzate di regolazione delle dinamiche retributive. A ciò si aggiunga la necessità di qualunque associazione datoriale di evitare emorragie di associati.
Ma vi sono almeno altri due aspetti nella proposta che possono influire sul futuro delle relazioni industriali italiane. In primo luogo il capitolo che riguarda il welfare sotto forma di assicurazione sanitaria, previdenza integrativa e formazione. Si introducono in questo modo a livello nazionale una serie di tematiche, spesso già presenti negli accordi di secondo livello, che aiutano il superamento dell’idea che l’unico elemento di scambio nella dinamica contrattuale sia quello salariale. Questi, uniti alla disponibilità di Federmeccanica di fare passi avanti sul fronte della partecipazione con l’istituzione di comitati consultivi nelle aziende con più di 1.500 dipendenti, sono elementi da guardare positivamente perché aprono ampi spazi di collaborazione e cooperazione nelle realtà in cui vengono contrattati, e non per nulla sono stati apprezzati da Fim e Uilm.
[**Video_box_2**]L’ultimo elemento di novità è la volontà degli imprenditori di superare gli inquadramenti professionali presenti oggi nel settore metalmeccanico, fermi a figure e mansioni del 1973 che, dal punto di vista tecnologico, corrispondono a diverse ère geologiche fa. Una volontà che, se portata avanti con il confronto e il sostegno di quell’anima del sindacato attenta alle nuove frontiere dell’Industria 4.0, potrebbe consentire un passo avanti verso un’organizzazione del lavoro al passo con le caratteristiche dei nuovi cicli produttivi, che hanno cancellato da anni la vecchia catena di montaggio e i ruoli a essa connessi. Basti pensare alla centralità della ricerca nell’impresa moderna e all’impossibilità oggi di inserire i ricercatori nelle imprese proprio per la mancanza di un adeguato inquadramento professionale. Questa è una sfida enorme, che riguarda la revisione delle declaratorie professionali, la creazione e l’eliminazione di profili, la flessibilità delle mansioni, così come di orari e luoghi di lavoro. Aumenti legati alla contrattazione aziendale, welfare da contrattare in chiave partecipativa e superamento della vecchia classificazione del personale. Elementi che, se sviluppati in modo sinfonico e all’interno di un dialogo con quella parte del sindacato aperta al cambiamento, possono essere un esempio per gli altri settori produttivi e quindi uno slancio per la modernizzazione delle relazioni industriali in cui al centro possa esserci il lavoro e il lavoratore, senza ignorare la realtà di un contesto in cui il cambiamento è l’unica costante.
Francesco Seghezzi è membro del Centro Studi Adapt