Così la geopolitica del petrolio cambierà l'ordine mondiale
Roma. Mentre l’ennesimo calo del prezzo del petrolio (37 dollari al barile) accompagnava gli ultimi scampoli di un 2015 assai complicato per i mercati borsistici internazionali, sono in molti a chiedersi come sarà il 2016 per il settore petrolifero. Tante le analisi e gli scenari tracciati dagli esperti, ma poche le certezze. L’ultima stima arriva dal Fondo monetario internazionale (Fmi) che, oltre ad avvertire che la crescita sarà “deludente e discontinua”, ha fatto presagire un disegno apocalittico.
Secondo gli economisti del Fmi, infatti, “l’atteso aumento dell’offerta di petrolio da parte dell’Iran dovrebbe mettere sotto pressione i prezzi globali, di un valore compreso tra 5 e 15 dollari al barile, aumentando contestualmente il pil globale di 0,3 punti percentuali. Sebbene è probabile che parte di questo impatto sia già scontato dal mercato dei futures, un ulteriore declino dei prezzi potrebbe materializzarsi con l’aumento delle esportazioni da parte dell’Iran, e a seconda di come reagiranno gli altri produttori dei paesi dell’Opec”, si legge in un report. Occhi puntati sull’Iran, dunque. In occasione della presentazione del budget per il 2016, Teheran ha fissato il prezzo di riferimento del greggio a 35 dollari al barile. Anche grazie all’accordo sul nucleare, nel 2015 gli ayatollah sono riusciti a ridurre di un ulteriore 8 per cento la dipendenza dal settore petrolifero, proprio per contenere i bassi prezzi del petrolio. Ma è altrettanto vero che l’Iran sarà uno “swing player” pesante sul mercato petrolifero quest’anno se riuscirà a mantenere gli ambiziosi target produttivi che si è voluto dare, allacciando rapporti commerciali con una fitta rete di paesi clienti. A tal riguardo, la notizia che l’India sarebbe pronta a importare la quota di greggio iraniano a livelli pre-sanzioni (Cina e Corea del sud si sono già accordate per farlo) potrebbe modificare l’assetto sui mercati asiatici.
[**Video_box_2**]Il 2016 sarà molto probabilmente l’anno della resa dei conti all’interno dell’Opec, il cartello transnazionale dei paesi produttori di greggio. L’Opec vive una lotta interna da oltre un anno e mezzo, dovuta alla strategia saudita di contrasto alla politica energetica statunitense. Una linea che lascia Ryad con pesanti ammaccature ma che la monarchia di re Salman non vuole cambiare. Chiuderà il 2015 con un deficit di bilancio pesantissimo, mai visto prima, circa 87 miliardi di dollari. Si prevede un taglio della spesa pubblica di circa 224 miliardi di dollari, mentre nelle ultime note diffuse dal ministero delle Finanze saudite emerge come i ricavi derivanti dal greggio, che rappresentano il 73 per cento delle entrate del paese, siano stimati in calo del 71 per cento circa a 108 miliardi di euro. Difficile dire quanto potranno reggere i sauditi anche considerando che, a questi numeri, si aggiunge l’ormai lampante ostilità della Russia. Mosca ha cercato in tutti modi di sfasciare i piani sauditi dentro l’Opec, alimentando una fronda con l’Iran e il Venezuela. Di recente il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, è tornato ad accusare i sauditi di avere destabilizzato il mercato aumentando la propria produzione di 1,5 milioni di barili al giorno senza consultare nessuno, nemmeno l’Opec. Gli annunci di Mosca parlano di una definitiva uscita dalla fase di recessione tecnica, ma è chiaro che l’industria degli idrocarburi è essenziale per la ripresa economica. Lo scenario internazionale resta intricato con qualche schiarita proveniente dagli Stati Uniti. Se durante il 2015 si è assistito all’abbandono di importanti progetti di sviluppo in Alaska e nel mare di Bering e al fallimento di compagnie di trivellazione per quasi 2 miliardi di dollari, è altrettanto vero che la fine del blocco all’export del greggio americano per il prossimo anno potrebbe rivelarsi un cannone commerciale puntato contro l’Opec e la Russia.
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