La Borsa cinese è solo un diversivo per mercati già squilibrati

Giorgio Arfaras
I mercati sono ipergonfiati, per questo l’incapacità di Pechino di gestire la finanza riporta tutti gli altri alla dura realtà

I mercati azionari sono calati moltissimo nei primi giorni dell’anno. Quello statunitense è flesso fino al cinque per cento, un evento non banale, perché è accaduto solo tre volte (1991, 2000, 2008) negli ultimi ottantacinque anni. Quasi tutti pensano che la ragione di tanta flessione nei mercati maggiori sia da ricercare nella caduta della Borsa cinese, che si è aggirata intorno al dieci per cento. Come è possibile che la Borsa cinese produca tanto sconquasso nel mondo intero?

 

Se prendiamo il rendimento delle obbligazioni (mondiali dei Tesori e private) che si aveva nel 2000 e lo si confronta con quello che si ha oggi, si scopre che allora dopo cinque anni si otteneva un rendimento cumulato alla scadenza del 30 per cento, mentre oggi si ottiene dopo sei anni un rendimento cumulato alla scadenza del 15 per cento. In due parole, la capacità di assorbimento delle perdite in campo azionario grazie al rendimento delle obbligazioni oggi è la metà. Se poi si calcola quanto i mercati azionari si muovano di conserva (la correlazione), emerge che oggi, rispetto al 2000, essi sono ben tre volte più simili nei movimenti. In breve, la diversificazione fra paesi oggi funziona molto poco. Il rischio oggigiorno è più difficile da assorbire, perciò si è molto nervosi quando si ha una crisi e si quindi si tende ad amplificarne la portata.

 

[**Video_box_2**]Osserviamo ora le valutazioni delle azioni. La misura più comune è il prezzo sull’utile, ossia il rapporto fra il prezzo di un’azione e l’utile che l’impresa che la ha emessa genera. Tanto maggiore questo rapporto, tanto maggiore la crescita che ci attende. Se prendiamo il rapporto prezzo utile mediano, ossia dell’impresa che sta proprio nel mezzo fra le più care e le meno care, scopriamo che la Borsa cinese ha una valutazione che è il triplo delle altre. Essa ha, infatti, un rapporto fra il prezzo e l’utile di sessanta volte contro un rapporto di venti volte degli alti paesi. Davvero le prospettive delle imprese cinesi sono il triplo di quelle delle imprese degli altri paesi? Il numero è esagerato, e la dice lunga sulla capacità della Borsa cinese di formare dei prezzi efficienti. Se, infatti, quello cinese fosse un mercato trasparente e regolato, difficilmente avrebbe queste quotazioni. La Borsa cinese, su cui il resto del mondo è peraltro poco investito, ha delle quotazioni astronomiche, perché non è un mercato trasparente e regolato, mentre gli altri mercati hanno, rispetto al passato, una modesta capacità di assorbimento delle crisi. La reazione che si è avuta nei mercati è però maggiore di quella che ci si aspetterebbe dal ragionamento proposto. Ieri la disoccupazione americana è andata oltre le previsioni in dicembre e ha fornito una spinta propulsiva ai mercati occidentali che, dopo gli svenimenti cinesi, hanno guadagnato sulla scorta dell’ottimismo (cauto) che arriva dall’America. E se la crisi cinese fosse solo il casus belli? Il quale ultimo è, come noto fin dai tempi antichi, cosa ben diversa dalla causa belli. La causa belli è l’incertezza che avvolge i mercati finanziari maggiori. Il ciclo di Borsa sano è quello che vede scendere il rendimento delle obbligazioni (il fattore di sconto), mentre salgono gli utili (il reddito per gli investitori). Oggi, invece, i rendimenti non possono scendere ancora, perché sono nulli, mentre gli utili si muovono poco. Non abbiamo perciò le premesse di un mercato finanziario sano. Il mercato di conseguenza è come se fosse sospeso, per cui appena si ha notizia che qualche cosa non va, come la vicenda cinese, ecco che corregge. Se i mercati azionari maggiori non hanno i motori – i rendimenti in discesa, gli utili in ascesa – per intraprendere un nuovo ciclo al rialzo che sia stabile, ecco che ogni “scusa” (in gergo finanziario trigger) è buona per vendere. La scusa cinese va per la maggiore.

Di più su questi argomenti: