Se il cavallo non beve, berrà
Diceva Ronald Reagan che “un economista è qualcuno che vede qualcosa funzionare nella pratica e si chiede se potrebbe funzionare in teoria”. Reagan parlava in tempi che visti con le lenti odierne appaiono un miraggio: alta crescita, bassa disoccupazione, inflazione tenuta a bada dal mitico governatore della Fed Paul Volcker, tassi d’interesse e investimenti sostenuti. Oggi, a sei anni dalla Grande recessione, la situazione delle economie avanzate, anche degli Stati Uniti, che pure sono in una posizione migliore dell’Eurozona, appare speculare rispetto a quella dei favolosi Eighties: a parte la disoccupazione, tutte le variabili flirtano con quota zero. E questo, dopo che nel sistema vascolare dell’economia globale sono stati iniettati migliaia di miliardi di dollari, euro, yen e perfino yuan cinesi. Una situazione che per gli economisti è “not normal” e li pone nella condizione indicata dall’ex presidente USA: cercare una spiegazione teoricamente plausibile a una realtà che non combacia con le indicazioni dei modelli prevalenti. Sul punto il dibattito è vivo soprattutto in America, scarso in Europa, quasi assente in Italia, nonostante le ferite lasciate dalla Grande recessione, soprattutto in materia di banche, siano qui più profonde che altrove.
“Penso che l’ipotesi di stagnazione secolare non sia così peregrina, ci sono problemi di natura profonda e strutturale dell’economia e il sostegno degli investimenti è una sfida importante”, ha dichiarato recentemente Pier Carlo Padoan, precisando poi che non si stava riferendo specificamente alla situazione italiana, anzi. Parole significative per il ministro dell’Economia di un paese del G8, che tuttavia non hanno lasciato quasi traccia nei media, dove vivace è invece la polemica su variazioni decimali mese su mese del prodotto interno lordo o dell’occupazione, quasi sempre in chiave di politica interna. Eppure la questione attorno alla quale gira il confronto tra scuole di pensiero sul futuro delle economie avanzate è proprio quella della Stagnazione secolare citata da Padoan e reintrodotta nel dibattito (il copyright datato 1938 è dell’economista americano Alvin Hansen) dall’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers in un discorso al Fondo monetario che ha fatto molto rumore. Ovvero una situazione nella quale l’economia viaggia stancamente al di sotto del suo potenziale e gli strumenti tradizionali, monetari e fiscali, per risollevarla sono spuntati. L’Economist l’ha ben illustrata in una copertina che ritrae un fantino a cavallo di una grossa tartaruga immobile. Ma l’interrogativo è: stiamo davvero per entrare in una lunga fase di ristagno della crescita dalle conseguenze politiche e sociali incalcolabili per le nostre democrazie? E se sì, come se ne esce? Indubbiamente ci sono analogie che danno da pensare. Nel 1939 la Bri (Banca dei regolamenti internazionali) si chiedeva perché a dieci anni dal crollo di Wall Street la domanda di credito fosse “praticamente scomparsa” nonostante “l’immenso accrescimento di quantità e, ancora più, di valore della nuova produzione di oro (equivalente del Quantitative easing o allentamento quantitativo odierno, ndr)”. Allora come oggi insomma le economie erano in ginocchio nonostante la politica monetaria avesse dato tutto quello che poteva. Gli Stati Uniti infatti uscirono dall’impasse soprattutto grazie alla guerra e all’aumento della spesa pubblica che ne derivò. In linea generale c’è un vasto consenso sul fatto che il rischio di una stagnazione secolare è molto concreto. Lo ammettono studiosi di varie scuole e provenienze, come il premio Nobel Paul Krugman l’ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard, l’economista di Nomura Richard Koo, il teorico del ristagno strutturale Robert Gordon. Non c’è consenso invece sulle cause del fenomeno e dunque sulla strategia per scongiurarlo. La divisione sulle cause traccia comunque una linea di faglia tra ottimisti e pessimisti sulla fuoriuscita dall’impasse attuale.
All’estremo della categoria dei pessimisti si trova certamente Robert Gordon, accademico liberal, autore del volume di grande successo “The rise and fall of american growth”, secondo il quale la crescita potenziale si è strutturalmente abbassata (a causa di sfavorevoli tendenze demografiche, esaurimento delle grandi innovazioni tecnologiche, crescita delle disuguaglianze, alto debito) e non permetterà al pil degli Stati Uniti (ma il discorso vale anche per l’Europa) di raggiungere l’1 per cento annuo di aumento nel periodo 2007-2032. Sul fronte opposto si collocano invece i tecno ottimisti come Eric Brynjolfsonn e Andrew McAfee di Harvard, economisti più vicini allo schieramento conservatore, autori di “The new machine age”, secondo i quali – altro che stagnazione secolare – siamo alla vigilia di una nuova età dell’oro per le economie avanzate grazie alle scoperte senza precedenti legate all’intelligenza artificiale (big data, robot, tecnomedicina, stampanti in 3D). Tra questi due estremi vi sono poi posizioni più sfumate. L’approccio ortodosso, condiviso dalle istituzioni internazionali e dalla maggioranza delle Banche centrali, chiama in causa l’attuazione di politiche strutturali (concorrenza, capitale umano, training, flessibilizzazione dei mercati) volte a stimolare la produttività dei fattori e la partecipazione al mercato del lavoro; iniziative elettoralmente costose e che la politica fatica a porre in atto ma che sarebbero in grado di accrescere gli investimenti e chiudere il gap che li separa dall’offerta di risparmio. E’ su questa linea anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, autore di un recente libro intitolato “Investire in conoscenza”. L’idea retrostante l’approccio ortodosso è che la Grande recessione ha lasciato in eredità una carenza di domanda, soprattutto di investimenti, che non può essere coperta con i tradizionali stimoli monetari. Ma, a parte i tempi lunghi richiesti dalle riforme strutturali per esercitare i loro effetti, ci si chiede se esse siano sufficienti a rimettere in movimento la macchina. Blanchard e Krugman, per esempio, ritengono che le banche centrali, in particolare la Bce, dovrebbero alzare il target d’inflazione dal 2 al 4 per cento, in modo da smuovere le aspettative degli operatori con una specie di colpo di frusta. Secondo Richard Koo, invece, solo una politica fiscale molto aggressiva può compensare il vuoto di domanda aggregata causato dai danni inferti ai bilanci di famiglie e imprese dalla Grande recessione. Pessimisticamente Koo ritiene tuttavia che questa sia anche una strada difficile da percorrere per i governi perché alla lunga non paga elettoralmente. In qualche modo eccentrica rispetto all’approccio ortodosso è la posizione della Bri di Basilea, che da anni ci ha abituato ad analisi provocatorie e allo stesso tempo intellettualmente raffinate sotto la regia dell’italiano Claudio Borio. Secondo la Bri, la “colpa” dell’attuale situazione si deve far risalire alle politiche monetarie espansive e al conseguente accumulo di debito pubblico e privato dell’epoca della così detta Grande moderazione, quando alla Fed regnava Alan Greenspan e ci si era illusi di “avere imbrigliato il ciclo e svelato i segreti più reconditi dell’economia”. Con la finanziarizzazione dell’economia, i cicli finanziari – caratterizzati da fasi di boom e di crollo dei mercati – hanno preso il sopravvento sui cicli economici reali i quali non possono essere compresi se non nel quadro di un’analisi dei primi. Lo scoppio della bolla dei subprime nel 2007 e gli avvenimenti ad essa successivi – questa la tesi dei banchieri svizzeri – hanno causato una recessione di tipo “patrimoniale”, dovuta cioè al tentativo degli operatori di riparare i danni provocati dallo scoppio della bolla nei loro bilanci riducendo l’indebitamento accumulato e l’attività. La cura per evitare la stagnazione secolare dunque c’è, ma non risiede nel proseguimento delle politiche monetarie espansive i cui effetti sono anzi sono “illusori e di breve periodo”, bensì, innanzitutto, nel risanamento dei bilanci delle banche (Italia drizza le orecchie) e nel perseguimento di politiche strutturali per il rilancio della crescita. Nel lungo periodo poi le politiche monetarie dovrebbero assumere un assetto asimmetrico rispetto all’andamento dei mercati, stringendo i freni nelle fasi di euforia e allentandoli in quelle di depressione. Non c’è nulla di ineluttabile, insomma, secondo la Bri: se si vuole, la stagnazione secolare si può evitare.
[**Video_box_2**]Patrizio Pagano e Massimo Sbracia, due ricercatori della Banca d’Italia, hanno messo in evidenza del resto che il fantasma della secular stagnation riaffiora ciclicamente nel dibattito economico all’indomani di acute recessioni: così fu negli anni Trenta del ’900 che furono seguiti dal più lungo periodo di espansione delle economie capitaistiche ma anche nel tardo ’800 e ancora negli anni Settata del secolo scorso. Ogni volta tuttavia i fatti successivi hanno smentito le profezie di sventura. Alla base di questi atteggiamenti pessimistici, secondo Mohamed El Arian, capoeconomista di Allianz, vi sono quasi sempre una sottovalutazione degli sviluppi tecnologici in atto e la congerie di ostacoli frapposti dalle burocrazie statali e dalla politica alle “forze trasformative dell’innovazione tecnologica”. Un messaggio di cauto ottimismo insomma, da raccogliere. Ma la attuale situazione not normal delle economie avanzate attende ancora una spiegazione condivisa.