Vladimir Putin (foto LaPresse)

Il petrolio costa poco e spinge Mosca a riflettere su un nuovo processo di privatizzazioni

Gabriele Moccia
La crisi del prezzo del greggio pesa sulle tasche degli oligarchi russi. Secondo alcune stime finanziarie da inizio anno avrebbero perso 11 miliardi di dollari. Ma è tutta la Russia a essere preoccupata. Le possibili contromosse.

Roma. La crisi del prezzo del petrolio alleggerisce sempre di più le tasche degli oligarchi russi. Secondo alcune stime finanziarie del Bloomberg Billionaires Index, i tredici principali oligarchi del paese – che in totale detengono circa 130 miliardi di dollari – da inizio anno avrebbero perso 11 miliardi di dollari a causa del repentino crollo del Brent sotto i 30 dollari. Tra i più colpiti, il magnate proprietario del Chelsea Roman Abramovich, che ha perso 820 milioni di dollari, mentre per Alisher Usmanov, il tycoon russo dell’acciaio proprietario della Metalloinvest, il tonfo da inizio 2016 sarebbe di 900 milioni. La Novatek, società energetica dell’oligarca Leonid Mikhelson, ha perso in Borsa 1,5 miliardi di dollari. Nei giorni scorsi proprio Mikhelson, in un incontro con il presidente russo Vladimir Putin, ha cercato di rilanciare la produzione di gas legata al progetto Yamal, sviluppato in joint venture con la francese Total. Ieri infine Vagit Alekperov, amministratore delegato della compagnia petrolifera Lukoil, ha annunciato che taglierà gli investimenti per il 2016 di 1,5 miliardi di dollari; la società, per l’anno appena iniziato, ragiona ora sulla base di un prezzo del barile a 30 dollari rispetto alle stime precedenti di 50 dollari.

 

A essere preoccupato, però, non è solo l’establishment economico legato a Putin, ma, come ha sottolineato il premier russo Dmitri Medvedev, tutta la Russia corre “grossi rischi” per il calo del prezzo del petrolio. A tal proposito, non è un caso che – in occasione della recente revisione del documento aggiornato sulla nuova strategia di sicurezza nazionale – il Consiglio di sicurezza della Federazione russa ha inserito tra le minacce principali anche il perdurare di uno scenario di bassi prezzi del petrolio e i suoi effetti sull’export delle materie prime. Gli stress test ordinati dal Cremlino per prepararsi a ogni evenienza, disegnano tre scenari specifici: il peggiore prevede un prezzo del greggio a 25 dollari al barile, mentre in quello più ottimistico è stato stimato un livello di prezzi pari a 45 dollari al barile. Una delle possibili soluzioni che vengono valutate al Cremlino – riferiscono al Foglio fonti diplomatiche – è quella di avviare un ambizioso nuovo round di privatizzazioni. Il governo russo starebbe infatti valutando la cessione di quote rilevanti della compagnia energetica Rosneft, come del resto ha confermato anche il ministro delle Finanze, Anton Siluanov.

 

[**Video_box_2**]Il ministro delle Finanze ha sottolineato la necessità di reperire attraverso le privatizzazioni entrate aggiuntive intorno ai mille miliardi di rubli (circa 12 miliardi di euro) per scongiurare squilibri nei conti pubblici. Per questo potrebbe non bastare la cessione della sola Rosneft e, dunque, il piano di vendita di asset pubblici potrebbe coinvolgere anche le due principali banche russe, la Sberbank e la Vtb. Proprio dalla Sberbank è arrivata in questi giorni una spietata analisi. Parlando da Mosca, German Gref, capo della banca ed ex ministro dello Sviluppo economico ha detto: “L’èra del petrolio è finita e la Russia non è riuscita ad adattarsi al cambiamento economico-tecnologico finendo nel gruppo dei paesi ‘perdenti’, quelli che devono ridimensionare le proprie ambizioni e che resteranno ‘pesantemente indietro’ rispetto ai rivali più avanzati. Dobbiamo ammettere con onestà che abbiamo perso la sfida con i nostri competitor”. Il Cremlino sta provando a uscire dalla morsa economica rilanciando anche la propria strategia energetica. La produzione petrolifera è stata portata ai livelli massimi dalla caduta dell’Unione sovietica, attestandosi sui 10,73 milioni di barili al giorno. E’ poi ripreso il Risiko legato ai gasdotti. Dopo aver registrato il “no” dell’Eni a una partecipazione sul gasdotto Nord Stream 2, Gazprom ha rafforzato le pressioni sul governo bulgaro per provare a rianimare il progetto del South Stream; il primo ministro bulgaro Bojko Borisov ha parlato a riguardo dell’intenzione di portare il gas russo sino ai confini meridionali bulgari attraverso la creazione di un nuovo hub del gas nei pressi di Varna, sulla costa del mar Nero, che coinvolga, oltre alla stessa Gazprom, la compagnia nazionale, la Bulgarian Energy Holding.

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