Non solo cavilli e decimali
Un “vincolo esterno” non ci salverà. Alle radici del duello fra Renzi e l'Europa
Roma. “L’Europa non ne azzecca più una: dobbiamo aiutarla a cambiare”. Lo ha detto Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico, all’apice delle tensioni delle ultime settimane tra Roma e Bruxelles. Nessuno dei presidenti del Consiglio di sinistra o di matrice tecnocratica che lo hanno preceduto dal 1992 a oggi si sarebbe mai sognato di dire parole simili o di sostenere tesi affini. Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Mario Monti ed Enrico Letta, in fondo, appartenevano tutti alla scuola del “vincolo esterno”. Quella in cui si insegnava, capovolgendo esattamente il Renzi-pensiero, che “l’Italia non ne azzecca mai una, e solo l’Europa può aiutarla a cambiare”. Renzi adesso, per dare copertura retorica al confronto con Bruxelles su dossier anche distanti fra loro (la flessibilità fiscale, l’unione bancaria, l’immigrazione, eccetera), allude invece senza infingimenti a un’Europa fallibile che l’Italia deve e può contribuire a correggere. Insomma, è l’addio (da sinistra) al “vincolo esterno” con il quale correggere il legno storto italiano. Al momento gli esiti pratici di questa svolta non sono assicurati. Anche perché, secondo alcuni analisti, essa coincide con sommovimenti ideologici altrettanto radicali in corso a Berlino nell’atteggiamento da tenere rispetto al processo d’integrazione (Merkel ieri ha fatto sapere di non essere “ottimista” sulla soluzione di tutte le controversie con Roma). Pur tenendo a mente queste cautele, Luciano Pellicani, sociologo e già direttore della rivista socialista Mondoperaio, dice al Foglio che siamo in presenza di “un fatto piccolo ma storico riguardo l’idea di ‘vincolo esterno’ vista da sinistra”. Anche nel Pd renziano c’è chi inizia a teorizzare esplicitamente questa rupture.
Intervistato dal Foglio giovedì scorso, Roberto Gualtieri, presidente della commissione per gli Affari economici e monetari nei Socialisti e Democratici (ex Pse) in quota Pd, ha detto che lo “scontro politico” tra Renzi e il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, è “positivo” perché “è parte di una ridefinizione del rapporto tra Italia e Europa”, “il segno” della fine dell’epoca del “vincolo esterno” che aveva accompagnato “il declino della Prima Repubblica e è stato il filo conduttore della Seconda Repubblica”. E Gualtieri prima di diventare parlamentare era uno storico (alla Sapienza) che sul passato della sinistra ha riflettuto a lungo (vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci): “Per oltre 25 anni non c’erano state internamente le risorse per riformare l’Italia”. Adesso sì.
La teoria del “vincolo esterno” europeo, poi, non è appannaggio della sola sinistra. Lo ricorda lo storico Giovanni Orsina nel libro “Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio), nel quale ricostruisce fra l’altro gli “sforzi continui e costanti che in questo paese sono stati fatti al fine di costruire, ricostruire, difendere e riparare un apparato politico ‘ortopedico’, ossia che raddrizzasse, e ‘pedagogico’, ossia che rieducasse il paese nei tempi più brevi possibili, così da renderlo infine capace di (una qualche forma di) modernità”. Già ai tempi della Destra storica, quando Bruxelles era tutto fuorché il centro dell’Europa, la modernità era “un modello straniero da importare in Italia e un modello settentrionale da importare nel mezzogiorno”; da qui “l’intreccio fra un ‘inseguimento esterno’ (del paese all’Europa) e uno ‘interno’ (del sud al nord)” che ha complicato non poco le cose.
[**Video_box_2**]Paolo Savona, economista ed ex ministro, critico del “caos istituzionale” in cui ormai è sfociata “l’architettura comunitaria”, parlando al Foglio dice di apprezzare “l’apparente cambio di toni impresso da Renzi sulla sacralità del ‘vincolo esterno’”. E’ scettico sulla possibilità che alle parole radicali seguano fatti altrettanto radicali, e coglie l’occasione per ricordare che “le virtù taumaturgiche del vincolo esterno per la società italiana sono state sempre un’idea di riferimento dell’azione politica di Guido Carli”, negoziatore del Trattato di Maastricht e personalità non inquadrabile nella sinistra. Oggi l’allievo, riflettendo sul percorso intellettuale e politico del maestro, ritiene che nel 1992 Carli, scottato dall’immobilismo della Confindustria, accettò che “il vincolo esterno, fino a quel momento gestito da meccanismi di mercato come era accaduto con Bretton Woods o la liberalizzazione degli scambi in Europa, iniziasse invece a essere gestito dai tecno-burocrati di Bruxelles”. Savona è cauto e rispettoso nel prendere le distanze da Carli, ma la parabola dell’ex ministro del Tesoro ci ricorda che non solo da sinistra si è guardato all’integrazione europea come a un correttivo per il “legno storto” italiano. Prospettiva che, a parole, Renzi ora rigetta.
Tuttavia dall’altra parte del tavolo negoziale, anzi a capotavola, oggi c’è una Germania che pure sta cambiando atteggiamento rispetto all’Ue, come sostenuto in una nota della Luiss School of European Political Economy stilata da economisti come Lorenzo Bini Smaghi, Marcello Messori e Stefano Micossi. Agli occhi di Berlino ha “perso credibilità” l’idea di “rispondere alla crisi accentrando il coordinamento delle politiche economiche”, in stile Six Pack o Two Pack. La Germania ora punta sul “coordinamento decentrato”: “No” alla condivisione dei rischi, “sì” alla loro riduzione degli stessi nei paesi ad alto debito. Questi ultimi devono sobbarcarsi in toto la riduzione degli choc economico-finanziari, separando rischi sovrani e bancari per esempio. Allora addio al completamento dell’unione bancaria, e benvenuta all’assegnazione di un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi dell’Eurozona. “Uno scenario preoccupante” per Roma, più dei decimali di deficit da strappare a Juncker.