Processo a Bankitalia
Roma. Tra Palazzo Chigi e Palazzo Koch oggi c’è una distanza molto più grande di quel chilometro segnato sulla mappa di Roma. E’ vero i due palazzi del potere in varie fasi della storia sono stati più vicini o più lontani. Talvolta si sono rispecchiati l’uno nell’altro, come quando Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, l’uno governatore e l’altro direttore generale, sono diventati presidente del Consiglio nel 1993 e nel 1995. Ma adesso il fossato appare davvero profondo e dalle due sponde partono frecce, giavellotti, palle di fuoco.
E’ vero, “Matteo Renzi rompe gli equilibri in un paese che cambia”, scrive Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Del resto, non potrebbe essere più grande la differenza tra “la contegnosa sobrietà rivestita di grisaglia di Palazzo Koch e gli abiti troppo stretti, la voglia un po’ provinciale di far bella figura e il fare spiccio e risoluto di Renzi”. Ma non è solo questione di stile o di carattere. Galli mette insieme anche la Farnesina, perché la diplomazia come la Banca d’Italia è stata l’incubatrice di una schiatta di funzionari pilastro della classe dirigente, la versione italiana dei grand commis d’Etat francesi. E non c’è dubbio che Renzi abbia preso di petto entrambe, ferendo spesso le loro sensibilità. Lo ha fatto, del resto, nei confronti di altri centri di potere o con lobby come la Confindustria e i sindacati. Ma ci sono differenze di fondo che rendono gli screzi con via Nazionale più cocenti e sdrucciolevoli. La prima, e senza dubbio la più importante, è che la Banca d’Italia ormai è un organo del sistema delle Banche centrali e deve rendere conto non solo al Parlamento e al governo nazionale, ma alla Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Dunque, ogni sasso lanciato a palazzo Koch genera onde a cerchi concentrici che arrivano fino a Francoforte. Renzi ce l’ha anche con Draghi? Nulla finora lo fa supporre.
Il contenzioso è ampio, l’elenco è lungo. E per ricostruirlo occorre fare qualche passo indietro perché la prima crepa si manifesta nell’ottobre 2014 con gli stress test della Bce dai quali escono maluccio importanti banche nazionali e con le ossa rotte le banche locali a cominciare da quegli ircocervi chiamati popolari. A Francoforte hanno applicato le regole, ma dov’erano i tecnici di via Nazionale quando si negoziavano i criteri da seguire? Perché non si sono opposti a considerare i prestiti incagliati delle banche italiane più pericolosi dei derivati e dei subprime che imputridiscono nella pancia della Deutsche Bank? Nel consiglio del Meccanismo di vigilanza unico c’è Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia, dunque gli strali cadono su di lui?
Il governo Renzi ha sostenuto e dato via libera al progetto di trasformare le banche popolari in società per azioni, premessa per cambiare la governance clientelare e per un tourbillon di fusioni come antidoto al loro fallimento. Il progetto era caldeggiato da anni e anni in via Nazionale e ci teneva in particolare Draghi. Ma anche in questo caso scoppiano le polemiche. Si dice che la Banca d’Italia voglia privilegiare Gianni Zonin, l’industriale del vino che fa il bello e cattivo tempo nella Popolare di Vicenza, tanto che propone di fondere la Banca dell’Etruria in quella vicentina. Apriti cielo. E soprattutto apriti bilanci. Gli ispettori di via Nazionale scoprono gli altarini, le magagne a lungo nascoste vengono a galla. Quando il ministro Maria Elena Boschi ha difeso il padre perché è una persona per bene ha lanciato una stilettata al curaro. “Mi fa sorridere – ha detto al Corriere della Sera – che alcuni autorevoli esponenti oggi prendano determinate posizioni, pur sapendo che sono le stesse persone che un anno fa suggerivano a Banca Etruria un’operazione di aggregazione con la Popolare di Vicenza”. E fu proprio Pier Luigi Boschi, allora vicepresidente, a opporsi al governatore Ignazio Visco e al capo della vigilanza Carmelo Barbagallo.
[**Video_box_2**]Il trauma della successione a Visco
Le strategie bancarie a Palazzo Koch vengono decise dal direttorio guidato dal governatore. Tra Visco e Renzi c’è anche una questione di personalità, di carattere. Economista puro (anche se ha opinioni politiche vicine alla sinistra), uomo colto, riservato, anzi introverso, il governatore è stato costretto a difendersi in tv davanti a Lucia Annunziata (altra novità assoluta). E sì che le due leggi di stabilità presentate da Pier Carlo Padoan hanno ricevuto un buon viatico da Luigi Federico Signorini, dirigente incaricato di discuterle in Parlamento. Il vicedirettore generale non ha esitato a criticare due punti che, non a caso, sono nel mirino di Bruxelles e di Francoforte: togliere l’Imu sulla prima casa invece che destinare le risorse ad alleggerire il carico fiscale sul lavoro e il rischio che la riduzione del debito slitti ancora nel tempo. Analisi serie, condotte con la necessaria diplomazia, ma che hanno irritato palazzo Chigi dove, a differenza dal passato, non ci sono economisti che provengono da palazzo Koch.
Sulla contesa con Berlino, non solo verbale (Roma ha rotto il silenzio sul Nord Stream 2 e si è tirata fuori dal sostegno finanziario alla Turchia per far fronte ai profughi), la Banca d’Italia non è stata coinvolta. Tuttavia ha appoggiato la maggiore flessibilità nella politica di bilancio, con l’obiettivo di sostenere la ripresa. Dunque, ha tenuto una linea nazionale, all’interno del binario sovranazionale tracciato dalla Bce. Ma forse in questo clima da “liberi tutti” Renzi si aspetta che i Koch boys scendano in campo a sua difesa con grafici e istogrammi issati a mo’ di vessilli. L’atmosfera non è certo rasserenata dalla circostanza che Visco scade l’anno prossimo. Se il governo non sarà cambiato, la scelta potrebbe diventare spinosa. Si sente già dire: se Renzi vincerà il referendum istituzionale e se avrà di nuovo il vento in poppa, potrebbe coltivare l’intenzione di pescare tra tecnici a lui vicini o dei quali si fida completamente. Un attacco all’autonomia e all’indipendenza garantite dal sistema europea delle banche centrali? E’ possibile; però così fan tutti, suvvia. Jens Weidmann, l’algido e pugnace presidente della Bundesbank non era il consigliere economico di Angela Merkel?