Finisce l'epoca dei “kingmaker” e in Confindustria è il caos
Roma. Ieri sono stati sorteggiati i tre cosiddetti “saggi”, ovvero personalità rilevanti dell’industria nazionale, che raccoglieranno le candidature degli aspiranti successori di Giorgio Squinzi alla presidenza di Confindustria. Da febbraio Adolfo Guzzini, Giorgio Marsiaj e Luca Moschini vaglieranno i candidati e ascolteranno gli associati che poi, a maggio, eleggeranno il 24esimo leader di Confindustria. Per la prima volta l’elezione avverà secondo i canoni della recente riforma dell’associazione, detta “riforma Pesenti”. Il passaggio è delicato. Il recente contesto recessivo ha fiaccato l’industria. Le grandi imprese dinastiche hanno perso peso dentro e fuori l’associazione mutando l’assetto confindustriale. “L’ex salotto buono del capitalismo è in disarmo. I grandi gruppi fondati dalle dinastie famigliari che hanno gestito gli equilibri di Confindustria per decenni (Agnelli, Pesenti, Merloni, Lucchini, Pininfarina, ecc.) sono depotenziati, trasformati, scomparsi, migrati o acquisiti da aziende estere”, dice al Foglio Filippo Astone autore di “Il partito dei padroni” (Longanesi, 2010). Con la trasformazione del grande capitalismo “sono emerse come architrave dell’economia quelle 4.200 e più imprese di medie dimensioni, definite da Mediobanca del ‘quarto capitalismo’, che contribuiscono a creare il 75 per cento del valore aggiunto della manifattura, determinano la competitività dell’Italia. Sono costoro che sceglieranno il presidente”.
L’identikit del prossimo presidente l’ha tratteggiato l’uscente Squinzi: un “imprenditore vero, manifatturiero” – “senza un manifatturiero in salute e con un ruolo centrale non ci può essere crescita” – cui il vicepresidente con delega alle relazioni industriali, Stefano Dolcetta, aveva aggiunto la specifica di “metalmeccanico”. Un “chimico” d’altronde sarebbe malvisto, i chimici hanno già la presidenza con Squinzi per la prima volta dalla fondazione nel 1910. Uno scostamento da un identikit “manifatturiero” rischia di avere effetti controproducenti per gli industriali. In primis, rappresenterebbe la sconfessione dell’avvio di un percorso riformista dei contratti di lavoro in senso decentrato, con relativa disponibilità al depotenziamento del contratto nazionale; cosa dimostrata appunto da Federmeccanica, federazione di federazioni settoriali della metalmeccanica. Secondo, perché il rafforzamento dell’industria manifatturiera – che ha visto ridursi il suo peso sul pil dal 21 al 16 per cento – è una delle poche istanze che i confindustriali non possono rivendicare come un successo di lobbing verso il governo: il governo di Matteo Renzi ha ascoltato diverse istanze importanti per gli industriali (art. 18, meno tasse, Jobs Act ecc.) ma non ha prodotto una “politica industriale” chiara come chiesto spesso da Squinzi. Finché l’assetto economico era determinato dalle grandi dinastie, i patriarchi o i discendenti si sentivano titolati a determinare la scelta del presidente, come i “kingmaker” nell’Inghilterra del ’400. Ora le trame sono più faticose da tessere, sebbene i metodi di battaglia siano immutati – le bordate sulla stampa a intensità crescente verso avversari veri o presunti restano la regola. Ma senza indirizzi, le truppe di imprenditori/elettori sono liquide e l’osservatore nota solo una produzione di “caos” mediatico. A proposito si racconta che una prosecuzione delle vecchie liturgie confindustriali si sia riprodotta per volere di Luca di Montezemolo, ex presidente di Confindustria e a lungo manager Ferrari, alla fine dell’anno scorso: nella sede milanese di Unicredit, di cui Montezemolo è vicepresidente, sono stati convocati una ventina di industriali per consultarsi su uno o più nomi validi.
[**Video_box_2**]Da allora è emerso Alberto Vacchi, 52 anni, della multinazionale del packaging Ima. Una nome benaccolto dall’entourage bolognese di sinistra (da Prodi alla Fiom), e perciò guardato di sottecchi dagli industriali del nord in particolare. Un altro che ha bruciato i tempi – sta ai “saggi” registrare le candidature – è Aurelio Regina, 52 anni, presidente di Unindustria Roma, presidente di Sigaro Toscano e manager di servizi, che per primo si è esposto il 22 ottobre 2015 parlando al Foglio. Altri nomi sono usciti sulla stampa: Fabio Storchi, 67 anni, presidente di Federmeccanica, capo di Comer Industries, meccatronica; Marco Bonometti, 61 anni, presidente degli industriali bresciani, capo di Officine Meccaniche Rezzatesi. Restano dietro le quinte, tra i papabili, Gaetano Maccaferri, socio di Regina, Guido Ottolenghi, presidente di Confindustria Ravenna, Vincenzo Boccia, ex presidente della Piccola Industria, ed Edoardo Garrone, delegato di presidenza per l’internazionalizzazione. Al di là dei nomi, nei fatti contano i pacchetti di voti che gli azionisti-contribuenti di Confindustria portano al presidente che tutelerà i loro interessi. L’assemblea dei delegati rappresenta 97 associazioni territoriali e 114 di categoria. A maggio eleggerà il presidente designato dal Consiglio generale straordinario del 17 marzo (se un candidato non viene designato deve avere l’appoggio del 20 per cento dei delegati per correre). Al Consiglio generale si giocherà la vera partita – servono circa 90 voti su 178 per vincere –, all’Assemblea spetterà sostanzialmente ratificare la scelta. Molti cercano segnali da Gianfelice Rocca, presidente della potente Assolombarda, ma lui finora si schermisce anche a costo di risultare tentennante e di irritare i “suoi” lombardi. D’altronde i crucci dei Rocca hanno origini lontane: Techint e Tenaris, due colossi mondiali della famiglia, devono fronteggiare i marosi del settore siderurgico e dei servizi per esplorazione e produzione di idrocarburi. Una transizione epocale e complicata, certo di più, per ampiezza e portata, di quella in corso in Confindustria.