Qualche ragionevole dubbio sul colosso agricolo ChemChina
Roma. La Cina mette a segno un altro colpo sul panorama industriale europeo, il Vecchio continente continua a essere il target dei tentativi di sviluppo tecnologico di Pechino. Quello messo in campo da ChemChina, la principale compagnia statale chimica cinese, nei confronti del colosso svizzero dell’agrochimica Syngenta non è solo il più grande takeover cinese all’estero (43 miliardi di dollari), ma anche l’ingresso a gamba tesa sul mercato agrochimico e alimentare europeo, britannico e anche brasiliano.
“L’operazione non è una nazionalizzazione di Syngenta”, ha provato a chiarire il presidente della società elvetica Michel Demare alla Cnbc, respingendo l’ipotesi di una cannibalizzazione del gruppo. Demare ha poi parlato di un interesse cinese ad assicurare i raccolti e aumentare la produzione domestica di cibo (strategico in questo senso il know-how industriale che Syngenta detiene in termini di banca di semi Ogm). “ChemChina ha un piano molto ambizioso, è interessata ovviamente a mettere in sicurezza la catena di produzione del cibo per 1,5 miliardi di cittadini cinesi, e sanno che questo obiettivo è raggiungibile solo con la tecnologia”, ha spiegato il presidente del gruppo elvetico. La food security è uno dei nodi sui quali il presidente cinese Xi Jinping punta a costruire il consenso in tempi in cui la fiducia delle autorità è molto bassa, a causa delle numerose tempeste finanziarie che hanno bruciato i risparmi di migliaia di famiglie cinesi.
Il top management di ChemChina è stato abile a sfruttare l’impasse creato dopo il fallimento dell’Opa, non proprio richiesta, che la Monsanto – l’altro colosso dell’agroalimentare – aveva lanciato su Syngenta. Gli svizzeri, infatti, non navigano in acque tranquille: il 2015 si è chiuso con ricavi per 13,4 miliardi di dollari e un utile in calo del 17 per cento, a 1,3 miliardi. Se, dunque, la fusione con Monsanto si sarebbe portata dietro enormi problemi in termini di concorrenza di mercato (soprattutto negli Stati Uniti) e gestione dei reciproci management, ChemChina rappresenta un compratore molto liquido, che non detiene attività sovrapposte e che quindi non è sottoposto alla scure delle autorità antitrust europee e americane. Inoltre, similmente a quanto accaduto in occasione dei patti parasociali siglati tra la compagnia cinese e l’italiana Pirelli (altra preda conquistata da ChemChina) il presidente del gruppo chimico, Ren Jianxin, ha assicurato che il controllo manageriale resterà in mani svizzere e non vi saranno sconvolgimenti nelle linee gerarchiche di Syngenta. Non è, però, sfuggito agli analisti più attenti come, solo qualche mese fa, Ren abbia messo a capo di una delle più attive sussidiarie di ChemChina, la China National Bluestar, Michael Konig, ex direttore generale della Bayer, un uomo che conosce bene il settore in cui opera il gruppo di Basilea. Konig potrebbe essere, quindi, il kingmaker per le nuove operazioni agrochimiche che la nuova realtà potrebbe sviluppare in Cina, ma anche altrove.
[**Video_box_2**]Sullo sfondo dell’acquisizione di Syngenta resta da chiarire cosa realmente significhi l’ascesa di ChemChina sui mercati globali. Il suo profilo di compagnia statale rende difficile agli investitori capire intenzioni e orientamenti strategici, ma, soprattutto, avere facile accesso a dati finanziari e industriali per comprendere realmente lo stato di salute dell’azienda. Il rischio che dietro questo attivismo si nascondano conti traballanti non è remoto. Prendiamo il caso di un altro gigante statale che opera nella produzione di acciaio, la Sinosteel: era considerata uno dei campioni dell’economia cinese, salvo poi chiudere il 2015 sull’orlo del default per il forte indebitamento e l’incapacità a ripagare interessi sui bonds emessi. Dice Jiang Chao, analista di Haitong Securities, dopo il caso di Sinosteel è difficile rassicurare gli investitori sulla capacità delle società cinesi di ripagare quanto essi hanno speso. Dietro ChemChina potrebbe nascondersi la stessa polvere. (g.moc.)